Spettacoli / Intervista

Vinicio Capossela: canzoni urgenti sul nostro presente

Parla il noto cantautore che sarà in concerto a Trento, sabato 26 novembre all'Auditorium Santa Chiara. Riflessioni sulla dimensione pubblica non individuale, le tematiche civili, l'elemento onirico: “La perdita di una dimensione collettiva è una mutazione del corpo sociale”

di Fabio De Santi

TRENTO. C'è già la scritta di sold out per il concerto di Vinicio Capossela del 26 novembre all'Auditorium Santa Chiara. Una dimostrazione dell'attesa che circonda il ritorno a Trento del cantautore con il suo ultimo disco “Tredici canzoni urgenti” cuore dello spettacolo “Con i tasti che ci abbiamo. Tredici canzoni urgenti a teatro”, che il cantautore proporrà il 26 novembre all’Auditorium Santa Chiara.

Dopo aver ottenuto la Targa Tenco 2023 nella categoria “Miglior Album in assoluto” Capossela porta nei teatri italiani le sue nuove canzoni, nate dall’urgenza di interpretare e dare voce ai problemi più stringenti del momento storico che stiamo vivendo. In questa intervista, realizzata via Zoom con i colleghi di altre testate, Vinicio Capossela racconta il suo spettacolo parlando anche del nostro difficile presente.   

Capossela, questo suo live si può definire di impegno civile?

“Il concerto, anche di più del mio ultimo album, ha una sua parte narrativa legata alla parola parlata e soprattutto prevede il fatto di essere insieme, di costruire un qualcosa di partecipato. I live sono delle ritualità che non possono prescindere da chi li partecipa e li vive insieme. Se per politico intendiamo un qualcosa di legato alla dimensione pubblica non individuale e ha magari un carattere legato a tematiche civili in qualche modo il mio  spettacolo è impegnato. Però per me è sempre più importante l'elemento onirico, con il sonno che diventa momento fertile per agire sulle coscienze e sull'inconscio”.

In questi tempi difficile quale dev’essere il compito allor dell’artista, Intrattenere e svagare oppure offrire approfondimenti e spunti per un’analisi dei cambiamenti e delle criticità di oggi?

“Toglierei l’oppure perché credo debba fare entrambe le cose. Come dicevo l’intrattenimento è importante, perché un concerto non è un comizio, ma allo stesso tempo l’intrattenimento può far fare un po’ di ginnastica alla coscienza senza privarla del sogno”.

Fra i riferimenti del suo ultimo lavoro anche quelli alla guerra in Ucraina, che ora possono essere validi anche per il nuovo fronte in Medio Oriente.

“Da allora, quando nel 2022 ho iniziato a scrivere le canzoni del disco, le cose se vogliamo si sono fatte purtroppo ancora più urgenti. La deriva della semplificazione del discorso politico e della rappresentanza, denunciata in un brano come La parte del torto, si è materializzata anche in Italia con le elezioni e con l'azione di questo governo. Un governo che nasce dalla paura e non dalla speranza come accade in molte altre parti d'Europa e del mondo. I conflitti e le guerre in corso sono aumentate e il nuovo fronte ci dimostra qualcosa di inaccettabile sia con gli attentati di Hamas sia con la replica israeliana. C'è un'orgia di violenza, di morte, di insulto alla cultura della vita, davvero terribile mentre cresce il fatturato dell'industria delle armi”.  

Secondo lei la pandemia ha cambiato il pubblico dei live?

“La pandemia ha accelerato un processo di domiciliarizzazione dell’intrattenimento, era già in atto, ad esempio, per la fruizione dei film al posto di andare al cinema, c’è un processo di divanizzazione che credo sia inevitabile. Allo stesso tempo però, per reazione, c’è anche il bisogno di uscire e di ritrovarsi a fare qualcosa, non so dare dei dati ma la mia sensazione è questa. Il problema dell’uscire è che spesso non è un arricchimento, quello che è proliferato è il mercato alimentare nelle città e sempre meno ci sono locali dove succede qualcosa come ad esempio la musica dal vivo, quasi come se la forma di socialità più diffusa sia quella del mangiare e del bere e questo non è un male ma non può essere solo questo. Come ho scritto nella canzone “All you can eat”: “se non c’è né principio né speranza allora mangia”.

Dal suo disco emerge che manca una dimensione collettiva: il suo concerto può in qualche modo supplire a una mancanza di spazi collettivi?

“La perdita di una dimensione collettiva è una mutazione del corpo sociale. Un tempo chi faceva dell’impegno faceva parte di un movimento, ora si è così individualizzati che quello che si può fare è offrire pensieri, possibilità di risoluzione ma non è certo organico a qualcosa di più ampio”.

Come si trova in un mondo di musica sempre più liquida e virtuale?  

“Di liquido c’è tutto: la società è liquida, la musica è liquida. Diventa tutto molto più comodo perché si può ascoltare in qualsiasi momento un brano senza doversi portar dietro la paccottiglia dei supporti, e io sono di una generazione che è cresciuta con i supporti, cioè cassette, cd e vinili. Il fatto che la musica si sia smaterializzata in un certo senso non è male perché è la cosa più immateriale che c’è, è nella sua natura. Però credo che ci vorrebbe comunque un’autoeducazione alla fruizione perché il supporto crea una forma e un legame”.

A questo proposito cosa pensa del ritorno prepotente del vinile nell'ultimo decennio?

“Anni fa avevo un legame quasi fisico coi dischi perché avevano una copertina, un volto e faceva tutto parte di quell’opera e continuo a credere in questo, in un disco come un’opera: o scrivo 12,13, 15 canzoni per fare un’opera o non ne scrivo nessuna perché mi piace pensare a un disco come una successione di canzoni.

A me piacciono i vinili non perché mi metto ad ascoltarli ma perché danno una materialità a un’opera che è fatta anche del corredo delle informazioni che la accompagnano, di un lavoro sulla grafica, sull’immagine e credo che il vinile abbia più a che fare con un atto di acquisto di una forma di opera d’arte che si è fatta immateriale che con l’ascolto in sè".

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