Spettacoli / Intervista

Enrico Bassetti, da Riva del Garda al red carpet della Mostra del cinema: «A Venezia emozioni potenti»

Enrico Bassetti, ventiduenne rivano, è il giovane co-protagonista della pellicola "Una sterminata domenica". «Se non fosse stato per il mio prof d’inglese al Maffei, forse non avrei mai scoperto questa grande passione per il palcoscenico... Non c’è altro che vorrei fare»

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di Elena Piva

RIVA DEL GARDA. In un mondo contemporaneo in cui i giovani attori tendono a proiettare le proprie aspirazioni verso i cast delle più celebri serie televisive, trovare qualcuno che ami il cinema neorealista e non è cosa facile. Ecco invece spuntare Enrico Bassetti, ventiduenne nato e cresciuto a Riva del Garda, che vede nel movimento culturale sviluppatosi nel Dopoguerra un fascino catalizzatore, naturalmente senza disdegnare le più contemporanee formule comunicative.

Nei giorni scorsi anche lui ha solcato (per la prima volta) il red carpet dell’ottantesima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica organizzata dalla Biennale di Venezia, grazie al ruolo di coprotagonista nella pellicola «Una sterminata domenica», regia di Alain Parroni,in concorso nella sezione “Orizzonti”. Non si tratta del primo altogardesano che affronta i riflettori della Laguna: prima di Bassetti infatti è toccato al talento di Luka Zunic, che sta collezionando ruoli sempre più rilevanti e, siamo sinceri, è un orgoglio averne raccontato i primi passi sulle nostre pagine.

Galeotto, per entrambi, il teatro. Per Bassetti, in particolare, il corso promosso dal liceo Andrea Maffei, durante gli anni d’indirizzo linguistico: grazie all’insistenza di un docente, le lezioni teatrali hanno significato una svolta nella scelta del futuro da rincorrere. Oggi preferisce il cinema, ma le basi derivanti dalle rappresentazioni sul palcoscenico restano per lui imprescindibili. Spirito libero che mal si adegua alla rigidità delle linee teoriche del “buon viso” sullo schermo, cerca ora di lasciarsi stimolare dagli impulsi più viscerali della città eterna, quella Roma che ha imparato a conoscere anche grazie al copione.

Enrico, come e quando ti sei avvicinato al mondo cinematografico?

«Se non fosse stato per il professore liceale di inglese, Marco Michelotti, forse non lo avrei mai scovato. Odiavo l’imposizione di seguire qualcosa che, all’apparenza, percepivo distante dal mio modo di essere. Invece, l’inaspettato: me ne sono innamorato. Se non mi avesse spronato non sarei arrivato qui. Dopo gli studi a Verona, ho frequentato la Civica Accademia d’arte drammatica “Nico Pepe” di Udine: trascorsi due anni però sono stato cacciato. Troppo indisciplinato: facevo di testa mia, davo spazio all’istinto piuttosto che alla tecnica. Ora ho ripreso i rapporti con la direzione, ma ho accolto il film “Una sterminata domenica” come una rivincita personale, una soddisfazione».

Ti ricordi la tua prima volta davanti a una telecamera?

«In occasione di uno dei tanti provini, avendo cominciato con il teatro le telecamere sono arrivate dopo e sono state una novità nella mia crescita. Da subito ho vissuto sensazioni meravigliose: durante le riprese mi sento a mio agio e talvolta totalmente a disagio, ma la scomodità è essenziale. Se in ambito attoriale ti vergogni di mostrare qualcosa di tuo, una fragilità, una frattura significa dare qualcosa di concreto, positivo. È un aspetto chiave, mi ha fatto capire che desidero fare questo mestiere».

Teatro e cinema: quale differenza è lampante ai tuoi occhi?

«A teatro il “primo piano” te lo devi fare da solo, al cinema la tua faccia è enorme, conquista lo schermo che recepisce ogni minima emozione. Sento il cinema come un lavoro molto più intimo ed emotivo, in fondo l’ho sempre preferito al teatro, anche se l’adrenalina del palco è rara sul set cinematografico. Certo, non mancano gli ostacoli ma se non ci fossero sarebbe tutto astratto».

Quali caratteristiche dovrebbe avere un attore?

«Ritengo che l’apertura e la sospensione del giudizio siano qualità necessarie».

Rispetto ai decenni passati, al di là della tecnologia, cosa è cambiato?

«Secondo me emerge la differenza del linguaggio, le nuove forme di comunicazione nascono con i nuovi autori, non si può parlare al pubblico nello stesso modo che si usava alla generazione di mio padre, infatti a lui piacciono film che a me non piacciono e ha più difficoltà nel capire i linguaggi che parlano alla mia generazione».

Come hai vissuto la “tua” Venezia?

«Il Festival di Venezia è uno degli appuntamenti più belli al mondo, anche se vive una doppia faccia: per quanto sia raggiante, resta un involucro, una copertina che mantiene la sua distanza dalla realtà. Sono stato onorato di avervi preso parte. Ho vissuto emozioni indescrivibili e potenti».

In “Una sterminata domenica” reciti con Zackari Delmas, Federica Valentini e Lars Rudolph. La trama intreccia la vita di tre adolescenti che costruiscono una narrazione decisamente non convenzionale rispetto al prototipo del romanzo di formazione. Raccontaci il personaggio che hai interpretato.

«Alex, il mio personaggio, è un ragazzo della provincia romana di 19 anni che trascorre le sue giornate, le “sterminate domeniche” appunto, assieme a Kevin e alla sua ragazza Brenda, che è incinta. Alex è il più introverso dei tre, cerca di dare alla sua vita una struttura matura, è sempre alla ricerca di qualcosa in cui potersi identificare, di un punto di riferimento. Purtroppo, cresce nell’assenza di strumenti: la scuola, i genitori, la cultura sono pressoché sullo sfondo e non il suo pilastro. Si perderà parecchio, soprattutto nella seconda parte del film».

Quale rapporto hai instaurato con il regista Parroni?

«Ho ritrovato in lui la mia stessa visione del mondo accademico, che a quanto pare ci risulta stretto se vissuto per molto tempo. Mi sono sempre sentito a mio agio e mi ha stupito vederlo con la camera a mano, una maniera differente di concepire film, perché proietta uno sguardo diverso nelle scene rispetto alla staticità di un operatore. Oggi posso dire che viviamo un legame simbiotico».

A quali attori ti ispiri?

«Oddio, a tantissimi! Ad essere sincero mi ispiro di più alle attrici, perché prendo nelle loro performance più spunti rispetto a quanti ne riesco a fare miei guardando la recitazione degli uomini. Le attrici mi colpiscono per intensità e presenza nelle parole che esprimono. Comunque dipende, amo il cinema in generale però mi piacciono i film neorealisti, molto le produzioni francesi. Non mi lego a un genere solo ma allo stile degli autori, da Andrea Arnold a Hardy Corin, da Larry Clark a Yorgos Lanthimos e Pietro Marcello».

Desideri diventi la tua professione, in futuro?

«Sì, non c’è altro che vorrei fare. Al momento non sto girando alcun film ma desidero andare avanti lungo questa strada e mi auguro arrivino nuove sorprese nel breve periodo. Ho dedicato anni allo studio, inteso nella sua accezione istituzionalizzata, seguendo i maestri e le accademie; ora penso sia giusto percorrere vie alternative nella vita reale. Mi sto trasferendo a Roma, girovago tra la capitale, Bologna e il Trentino».

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