Oriente Occidente: la reporter «mondiale» ci parla di Covid, informazione e tendenze globali

di Daniele Benfanti

Uno sguardo bicipite, ad ampio raggio, che non si dimentica di quella parte del mondo che non è Occidente. Un toccasana per un festival che non a caso ha scelto di chiamarsi Oriente Occidente, perché i due mondi non possono ignorarsi, si toccano, si penetrano, si incontrano, si contaminano, anche confliggono, da sempre. 

Uno sguardo che porta in dote Barbara Serra. Giornalista internazionale, 46enne, nata a Milano da padre sardo e mamma siciliana, cresciuta a Copenhagen (frequentando una scuola internazionale), trasferitasi a Londra quasi trent’anni fa, dove si è laureata alla London School of Economics e ha lavorato per i principali network internazionali, come Bbc, Sky News, Five News e, dal 2006, per Al Jazeera English. È nota al pubblico italiano come opinionista di Tv talk, programma Rai dedicato all’analisi della tv.

Al Trentino la legano le vacanze invernali a Madonna di Campiglio, fin da quando era bambina, e il premio giornalistico Val di Sole, ricevuto a Dimaro-Folgarida qualche anno fa. A Rovereto interviene oggi alle 17 al Tetro Zandonai, per parlare di «L’Europa della pandemia. Quale equilibrio, quale futuro?». Avrebbe dovuto parlare anche di fascismo sabato mattina, ma il Festival, visto che siamo in piena campagna elettorale ha preferito annullare l’incontro.

Serra, qual è il primo ricordo della pandemia da Coronavirus che le viene in mente?
«Che ero a sciare. Anch’io come tanti. Non in Trentino, però. Quest’anno, a febbraio, avevo scelto la Val d’Aosta. Era il giorno di San Valentino e si cominciava a sentire qualcosa. Tornata a Londra, qualche leggero sintomo, semplici starnuti: per precauzione ho lavorato da casa per 14 giorni e ho evitato che mio figlio andasse all’asilo. Poi è arrivato il lockdown anche in Gran Bretagna, anche se meno severo di quello italiano».

Il lavoro giornalistico ad Al Jazeera come è cambiato?
«Una squadra di 150 persone ha cominciato a lavorare a rotazione. In presenza c’erano non più di 30 persone. Un modo di lavorare che continua anche ora. Per i reportage si sono creati dei piccoli gruppi fissi: reporter, cameraman, montatore. La forza del nostro network, di avere molti corrispondenti nel mondo, ci ha permesso di limitare fortemente i viaggi».

I media hanno raccontato correttamente l’evolversi della pandemia in questi mesi?
«Naturalmente i media locali e nazionali hanno guardato i dati dei contagi nelle loro piccole realtà. I network internazionali hanno dato una visione d’insieme. E devo dire che a febbraio con Codogno e a marzo tutti gli occhi del mondo, spaventati, erano sul Nord Italia. Da italiana all’estero ho visto uno choc nel guardare all’Italia di quei mesi. Con il timore di vedere il proprio Paese in quelle condizioni seguire a ruota».

La situazione in Cina non aveva allarmato abbastanza nelle settimane precedenti?
«Innanzitutto da un Paese come la Cina era difficile avere immagini. Non è una democrazia. Diciamo che il mondo si è svegliato con il Covid quando ha visto l’Italia. E tutti gli europei la conoscono, moltissimi ci sono stati in vacanza. Da cronista e da italiana mi sono premurata di spiegare che gli ospedali del Nord Italia sono d’eccellenza, quindi il contagio faceva ancora più impressione».

I cittadini, telespettatori o lettori, si sono però sentiti disorientati sia dalla messe di numeri snocciolati, a volte caoticamente, sia dalle previsioni sul decorso e sulla virulenza della pandemia, che non hanno mai visto concordi gli scienziati.
«Certo. I numeri della pandemia sono sempre stati relativi. È mancato uno standard internazionale. I punti di domanda sono tanti; il numero dei contagi dipende dai tamponi fatti, cosa definisce una morte per Covid? Ho intervistato, in questi mesi, centinaia di esperti e tutti dicono che è impossibile fare raffronti tra Paesi. Si è detto che l’Italia ha avuto tanti decessi a causa della popolazione anziana. Ma è tutta l’Europa ad avere una popolazione piuttosto anziana, non siamo il Medio Oriente! Tutti sono concordi nel dire che l’Italia ha avuto troppi morti. Gli esperti danno consigli, poi sono i politici a dover prendere le decisioni».

La politica britannica ha fatto errori?
«La Gran Bretagna, rispetto all’Italia, che è stata colta di sorpresa, ha avuto qualche decisiva settimana di vantaggio. Anche se per troppo tempo si è detto: “No, dai, qui da noi non può diffondersi come in Italia”. E invece il virus ha colpito il premier Boris Johnson, alcuni membri del governo e dello staff. Si è visto che consigliare il distanziamento prima del lockdown è stata una misura troppo blanda. Andava imposto subito».

Gli italiani sono apparsi sorprendentemente ligi al rispetto delle regole del lockdown. Disciplina o paura?
«Da italiana all’estero devo dire che gli italiani rispettano le regole se le trovano sensate, non a priori, se hanno poco senso. Certo, hanno avuto paura e avevano ragione».

L’Europa si è dimostrata indecisa e sfilacciata, ancora una volta, nel gestire l’emergenza e la ripartenza.
«L’Ue non è gli Stati Uniti d’America. Nessuno ha colto subito la portata dell’emergenza. Ma ci sono arrivati. Comprendo i primi istinti, che sono quelli di far prevalere gli egoismi».

Il Covid-19 cambierà gli equilibri geopolitici del mondo?
«Rifatemi la domanda tra due mesi… Dopo le elezioni americane potremo fare qualche previsione. In America molti ritengono che Trump non abbia gestito bene l’emergenza. Se vincerà Biden potremo assistere a un ritorno della politica obamiana, ma non è nemmeno detto. Come non è detto che Biden attui una politica più conciliante con la Cina. Quel che è certo, è che alla politica Usa si adattano poi l’Europa e la Nato».

Una tendenza che sembra molto «globale» in questo momento storico è la ricerca di un uomo (o donna) forte in politica.
«È un tema che tratto in uno dei miei ultimi lavori, il documentario “Fascism in the family”, in cui parto dalla storia personale di mio nonno, Vitale Piga, podestà fascista di Carbonia, in Sardegna. In tempi di confusione c’è la tentazione di dare fiducia totale a qualcuno, che spesso cerca di trasformare la paura in odio.In Italia con il termine fascismo tendiamo a indicare solo quel ventennio. In inglese “fascism” è una parola più generica, che descrive un atteggiamento, non solo un regime autoritario».

Le derive autoritaria molto spesso dimostrano un sapiente uso distorto dei mezzi di informazione. Come ci possiamo proteggere?
«I network dell’informazione stanno diventando dei brand. Molti miei follower su Instagram non mi guardano in tv, ma sanno che la mia testata è autorevole. Si fidano. La domanda da farsi, sempre e da insegnare nelle scuole è: “Chi mi sta dando un’informazione, se bluffa o bara, ha qualcosa da perdere? Se la risposta è sì, dobbiamo fidarci. Se io ad Al Jazeera sbaglio o dico il falso, rischio il posto, il mio gruppo può finire in causa, avere perdite economiche. Capire le fonti. Il problema, oggi, non sono solo quattro sciocchi che non capiscono la differenza tra una fonte autorevole e una inaffidabile. C’è una sottile sofisticazione dell’informazione, voluta, capace di riprodurre siti e testate in tutto simili alle originali. La soglia dell’attenzione deve essere massima».

comments powered by Disqus