«Siamo in due ma facciamo un casino per quattro»

di Fabio De Santi

Sono le I’m Not a Blonde (But I’d Love To Be Blondie) le protagoniste del primo appuntamento di stasera con I like Mart, l’iniziativa dedicata ai giovani ospitata al Mart di Rovereto. In questa occasione il Museo si trasformerà in una location nella quale risuoneranno brani musicali che spazieranno dalla british anni ‘80, fino al rock e gli anni ‘90. On stage il duo milanese formato da Chiara Oakland Castello e Camilla Matley, polistrumentiste e compositrici di un triplo Ep e dell’album «Introducing I’m Not A Blonde».

Come vi siete trovate in questo progetto e quando?

«Ci siamo conosciute - risponde Chiara - due anni fa quando Camilla stava cercando una cantante per un altro progetto musicale, quella band è durata molto poco ma io e Camilla abbiamo cominciato a fare delle collaborazioni e presto è arrivata la voglia di scrivere delle cose insieme e così sono nati i pezzi del nostro primo Ep uscito a settembre 2014».

E questo nome più o meno biondo?

«È interessante come il nostro nome ultimamente venga spesso tradotto in italiano assumendo tutta una serie di divertenti sfumature e libere interpretazioni, spesso siamo le “non bionde” “le blondie” “le diversamente bionde” e ora come dici tu le “più o meno bionde” chissà come mai c’è così bisogno di italianizzarlo, forse perchè il modo di dire da cui abbiamo preso spunto non è molto utilizzato in italiano?  “To be a blonde” è un modo di dire inglese usato per definire una “donna stupida” (esiste in molte lingue in verità) e abbiamo voluto giocare in maniera ironica e altrettanto provocatoria definendoci “non bionde” appunto. La provocazione è un pò nei confronti di una cultura, tra cui l’ambito musicale a cui apparteniamo, dove le donne fanno ancora fatica a trovare spazio... la scena musicale italiana è ancora dominata da uomini, le donne  tendenzialmente fanno “ le cantanti” o “le interpreti” mentre musiciste, autrici e produttrici sono ancora una minoranza».

Vi garba il termine elettro pop?

«Sì ma va detto che quello di electro pop è un contenitore molto grande all’interno del quale si possono trovare cose anche molto diverse tra di loro e a noi va bene così. A seconda dei momenti e delle canzoni possiamo aggiungiere anche art e punk arrivando al nome completo di arty punk electro pop».

Tre Ep prima di un album vero e proprio: come mai questa scelta?

«Per due motivi: eravamo all’inizio ci dovevamo ancora conoscere e capire cosa volevamo fare... la direzione musicale da prendere. Poi perché c’è una differenza incredibile tra il tempo che ci vuole per scrivere/produrre canzoni, rispetto a quello con cui vengo consumate oggi. C’è una richiesta sempre più frenetica di “nuovi contenuti” così abbiamo pensato che diluirli nel tempo, pubblicando le nostre canzoni tre alla volta (abbiamo fatto 3 Ep, con 3 pezzi ciascuno, ogni 3 mesi con una sorta di trilogia del 3), poteva essere un modo saggio per sopravvivere un pò più a lungo in questa giungla musicale».

Come si strutturano i vostri live?

«Sul palco siamo divise da un tavolo centrale con sopra alcuni altri strumenti che suoniamo a seconda dei momenti. Usiamo poi un campionatore con cui li registriamo e rimandiamo in loop nella costruzione dei brani».

Qual è il vostro rapporto con l’immagine?

«Ormai nel pop è difficile fare una distinzione tra musica e immagine, solo elementi complementari, che definiscono l’identità di un progetto. Noi abbiamo trovato la nostra nelle maglie che indossiamo disegnate da Andrea Incontri».

Ditemi un paio di motivi per cui vale la pena assistere ad un vostro set?

«Per le nostre maglie appunto e perché siamo in due ma facciamo un casino per quattro».

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