Le povere girls, i poveri boys Resistenze femminili a teatro

di Fabio De Santi

Nel 2008 diciotto ragazze di una scuola superiore americana, tutte under 16, rimasero incinte contemporaneamente e proprio in quell'anno il numero delle ragazze madri della scuola risultò quattro volte superiore alla norma. È da questo che ha preso forma Sorry, boys lo spettacolo di Marta Cuscunà che punta lo sguardo sul sistema-ospite in cui questa storia è nata e si chiede quale sia il contesto sociale adulto in cui questo progetto virale di maternità abbia potuto attecchire. Con Sorry Boys in scena mercoledì prossimo al Teatro Sociale di Trento per la rassegna Altre Tendenze, la Cuscunà, come ci racconta in questa intervista prosegue nel suo progetto artistico sulle sulle «resistenze femminili» partendo dal presupposto che i generi sessuali sono in stretta e reciproca interdipendenza.
Marta, da quali presupposti è nato Sorry Boys?
«Dal 2009 sto lavorando al progetto "resistenze femminili" in cui voglio trattare storie di donne che in qualche modo hanno scelto di rivendicare un ruolo diverso per se stesse. Ad un certo punto mi sono resa conto che parlare soltanto del modello femminile senza affrontare anche la tematica del modello maschile non aveva molto senso perchè i due modelli sono collegati fra loro. Indagando questo argomento ho trovato questi fatti avvenuti nel 2008 negli Stati Uniti».
Una storia «disturbante».
«Non è un termine che ho scelto io ma la parola che veniva usata negli show televisivi per raccontare questi fatti e nei telegiornali. Una storia diventata uno scandalo internazionale da cui è nato un film, un romanzo e anche il formato televisvo di Mtv "Sixteen and pregnant" che affronta le gravidanze in età così giovane. La cosa che mi ha colpito di più indagando sui fatti è stato scoprire come l'unica ragazza che dopo lo scoppio dello scandalo continua ad affermare di aver cercato volontariamente la gravidanza dice di averlo fatto dopo aver assistito ad un fatto di femminicidio».
E cosa ha scoperto?
«Ho cercato ulteriori informazioni riguardo a questo argomento ed è emerso che nella stessa cittadina di trentamila abitanti il livello di violenza maschile era diventato così insostenibile che era nata una vera e propria mobilitazione di uomini che avevano marciato per le strade per sensibilizzare la cittadinanza su questo grave problema. Ho letto le due cose insieme perché non le ritengo casuali o slegate fra loro».
Come ha affrontato dal punto di vista teatrale questo tema?
«Mi è sembrato importante indagare chi ha subito la decisione di questo patto di maternità che portava ad allevare questi bambini poi in una comune femminile. Quindi sia gli adulti che i giovani adolescenti maschi che sono stati usati per questo patto ma che poi sono stati esclusi appunto dalla parte successiva, dalla possibilità di allevare i loro figli. Di fatto chi è stato escluso dal patto ne è stato completamente sopraffatto e messo con le spalle al muro da questa pianificazione così eclatante. Questo mi ha fatto trovare un'analogia con le opere denominate "We are beautiful" del fotografo francese Antoine Barbot che ha messo delle teste umane dentro dei trofei da caccia: quindi vari personaggi come il preside della scuola, i genitori, l'infermiera e i giovani padri potessero essere messi anche loro in questi trofei per indicare il fatto che non possono più nulla, che sono stati messi in scacco. Loro sono appesi e manovrati da una figura femminile che si intravede. Con questa idea ho contattato Paola Villani che con un lavoro davvero eccezionale ha dato forma a delle teste animatroniche caratterizzate da diversi movimenti facciali molto realistici».
Come ne escono i «boys»?
«Penso che il modello maschile imposto dalla società crea in molti casi degli uomini che non riescono ad essere felici. Anche al giovane uomo viene chiesto di controllare la propria emotività, di dimostrare una certa imperturbabilità senza dimenticare che l'aggressività viene anche vista come dimostrazione di carattere. Da qui mi chiedo se sia possibile immaginare e realizzare un nuovo possibile modello maschile che permetta anche all'uomo di vivere in maniera molto più appagante e soddisfacente le relazioni sociali».
Magari con un processo di «autocoscienza?
«Potrebbe essere perché se nella storia del femminismo e delle rivendicazioni femminili c'è un lungo percorso in cui le donne si sono messe in discussione forse da parte maschile è mancato questo aspetto. Sono molto rare le associazioni che si interrogano sulla mascolinità e questo potrebbe essere utile per entrambi i sessi perchè non ci può essere una vera emancipazione femminile se a fianco non c'è anche un cambiamento anche maschile».
Ma non pensi che il maschio andrebbe in crisi?
«Questo è un termine che usa anche Stefano Ciccone quando dice che fino ad oggi il cambiamento maschile è stato sempre rappresentato nei termini di una crisi in cui si immagina un uomo che viene in qualche modo spodestato da un ruolo che ha avuto fino adesso. Si dovrebbe invece pensare al cambiamento in termini possibili leggendolo come la possibilità di guadagnare una nuova forma di felicità di espressione di se stessi».

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