Domani l'addio al grande maestro Luca Ronconi

Domani, martedì, l’estremo saluto a Luca Ronconi, il grande maestro del teatro, scomparso sabato sera al Policlinico di Milano per complicazioni legate probabilmente al virus influenzale.
Nel rispetto della sua riservatezza non ci sarà camera ardente e il funerale sarà in forma privata martedì prossimo, nella parrocchia di Civitella Benazzone, in provincia di Perugia, dove sono sepolte persone a lui care.

Ieri il ricordo del suo Piccolo teatro, dove non hano trattenuto le lacrime gli attori andati in scena al con «Lehman Trilogy», l’ultima regia di Ronconi.
Per ricordarlo, il teatro, che era diventata la sua casa dalla morte di Giorgio Stehler a fine 2007, ha scelto di dedicargli la scuola, che da oggi porta il suo nome. E ha pensato a un ricordo sul palcoscenico, prima dello spettacolo.

Il pubblico che lo ha amato ieri ha potuto lasciare un messaggio di addio sui libri che il Piccolo ha allestito in tutte e tre le sue sedi - Strehler, Grassi e Melato - e che resteranno a disposizione fino all’8 e al 9 marzo, quando si concluderanno le commemorazioni del direttore artistico.
L’8, infatti, che sarebbe stato il giorno del suo 82° compleanno, sarà una giornata di proiezioni dei suoi spettacoli e di alcuni video-documenti nelle tre sale.
Il giorno dopo alle 20, al teatro Grassi, gli artisti che gli sono stati più vicini porteranno una personale testimonianza del loro lavoro con Ronconi, insieme agli allievi della scuola del Piccolo e del centro teatrale Santa Cristina.
Al teatro Grassi, prima dello spettacolo, gli attori (fra di loro Fabrizio Gifuni, Massimo Popolizio, Fabrizio Falco e Paolo Pierobon) sono saliti sul palco insieme a tutti i tecnici e con il direttore Sergio Escobar, rimasto defilato in seconda fila.

A prendere la parola è stato il decano del cast, Massimo De Francovich, che ha annunciato, a chi ancora non lo sapeva, la scomparsa di Ronconi. «Siamo tutti qui, attori e tecnici, e devo dire che per noi non sarà una recita facile come non lo saranno quelle successive da qui al 15 marzo. Noi la faremo con il massimo impegno, con la massima lucidità e con il massimo divertimento, perchè questo è anche uno spettacolo divertente, perchè - ha spiegato - è il solo modo che abbiamo, l’unico, per ringraziare Ronconi di tutto quello che ci ha dato. Dobbiamo sentirci un po’ orgogliosi di essere nostro malgrado testimoni attivi dell’ultima, bellissima fatica di Luca Ronconi».

Dopo le sue parole dal palco e dalla sala, dove non erano presenti rappresentanti delle istituzioni, ma amici e appassionati, è partito l’applauso al regista e si sono affacciate le lacrime sul volto di chi ha lavorato con lui una vita o solo pochi anni.
Non tutti sono potuti entrare per ascoltare queste parole. Qualcuno che non aveva il biglietto si è dovuto accontentare di sentirle dal chiostro del Piccolo, dove dalle 15 sono arrivati amici, conoscenti e semplici ammiratori a firmare il libro del lutto. 

A rendergli omaggio è passata Livia Pomodoro, presidente uscente del Tribunale di Milano, a lungo sua vicina di casa.
«Quello che è stato detto su di lui - ha raccontato - è ancora poco rispetto alla grandezza dell’uomo. Ha insegnato a tutti davvero cosa significhi fare teatro».
A dirgli addio sono venuti anche i ragazzi della scuola di teatro, orgogliosi che da oggi porti il suo nome. «Era un maestro di una grandezza intellettuale e umana grandissima. Per noi è un lutto personale».

Il nome di Luca Ronconi è sinonimo di teatro; o meglio sinonimo di regia teatrale, l’arte composita che consiste nel creare spettacoli, istruire gli attori, offrire al pubblico il tesoro della drammaturgia di tutti i tempi. Solo di Giorgio Strehler e di Luigi Squarzina si può dire lo stesso, ma con una differenza: Ronconi oltre che un supremo interprete è stato un formidabile sperimentatore e basterebbe ricordare il torrente di invenzioni «dell’Orlando furioso» per convincersene.

La vita di Ronconi può essere raccontata elencando i cento e più spettacoli, i tanti attori incontrati in palcoscenico, gli allievi che si sono abbeverati alle sue lezioni all’Accademia d’arte drammatica di Roma, dove lui stesso aveva studiato anni prima ed anche le schiere di appassionati della sua arte inventiva, che si fregiavano del titolo di «ronconiani».
Dapprima e per pochi anni Ronconi si pensava attore; infatti, nato in Tunisia nel 1933, si diploma al corso di recitazione dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma nel 1953.
Esordisce subito dopo in «Tre quarti di luna» di Luigi Squarzina, diretto dallo stesso Squarzina e da Vittorio Gassman.

In seguito recita con altri registi importanti, come Orazio Costa, Giorgio De Lullo e Michelangelo Antonioni. A trenta anni, la sua carriera sembrava avviata verso un abile mestiere sostenuto da una buona tecnica e da una gradevole presenza scenica.
Ma ecco che, quasi per caso - inizia a lavorare come regista nel 1963, con la compagnia di Corrado Pani e Gianmaria Volontè, e negli anni successivi si fa notare come esponente dell’avanguardia teatrale, fino ad arrivare alla fama nel 1969 con «l’Orlando furioso» di Ariosto, nella versione di Edoardo Sanguineti con scenografia di Uberto Bertacca. Nato come fatto sperimentale nella chiesa di San Nicolò al Festival di Spoleto, lo spettacolo gli regalerà fama nazionale e all’estero. Nel 1974 dirige una versione cinematografica dello stesso dramma, dove fra gli interpreti spiccano attori come Massimo Foschi e Mariangela Melato. La versione televisiva andò in onda per cinque puntate nel 1975 la domenica in prima serata: un episodio pressochè unico in cui il teatro (per giunta d’avanguardia) «invase» la televisione.

Dagli anni Settanta in poi collabora con diverse istituzioni teatrali, tra cui la Biennale di Venezia, di cui è direttore della Sezione Teatro dal 1975 al 1977. Nel biennio successivo, (1977 - 1979), fonda e dirige il Laboratorio di progettazione teatrale di Prato. Sono gli anni di spettacoli memorabili, tra cui «Orestea» di Eschilo (1972), «Utopia» da Aristofane (1976), Baccanti di «Euripide» (1977), «La torre» di von Hofmannsthal (1978).

Tra gli spettacoli da segnalare negli anni Ottanta, «Ignorabimus» di Holz (1986), «Tre sorelle» di Cechov (1989). Al di là delle diverse scelte drammaturgiche, delle occasioni produttive, della ricerca di attori da formare e da lanciare, l’insieme di questi spettacoli si distingue anche per la ricerca o piuttosto l’invenzione di insoliti spazi teatrali: dai cavalli di lamiera che fendevano il pubblico dell’Orlando furioso, alla zattera che faceva da palcoscenico sul lago di Costanza, al labirinto costruito appositamente per «XX» a Parigi.
In seguito dirige il Teatro Stabile di Torino (dal 1989 al 1994), dove realizza tra l’altro un imponente allestimento (oltre sessanta attori) de «Gli ultimi giorni dell’umanità» di Karl Kraus, al Lingotto (1991).
Nel 1994 dirige a Salisburgo «I giganti della montagna» di Pirandello.

Diventa poi direttore artistico del Teatro di Roma (dal 1994 al 1998), dove nel 1996 dirige «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana» di Gadda e l’anno successivo mette in scena uno dei pochi drammi inediti della sua carriera, il «Davila Roa» di Alessandro Baricco, che viene addirittura fischiato dal pubblico e «I fratelli Karamazov» di Dostoevskij 1998.
Nel 1999 passa al Piccolo Teatro di Milano, dove affianca il direttore Sergio Escobar nel ruolo di direttore artistico. Qui debutta con due pièces: «La vita è sogno» di Pedro Calderon de la Barca e «Il sogno di August Strindberg. Al Piccolo, nel 2002 dirige un originale spettacolo, «Infinities», tratto da un testo scientifico del cosmologo John David Barrow.

Ricco e carismatico anche il capitolo delle regie liriche, per il quale ha firmato gli allestimenti soprattutto di classici italiani (Monteverdi, Bellini, Rossini). Oltre a vari lavori per la Scala, Ronconi ha partecipato più volte al Rossini Opera Festival di Pesaro - Verdi e Puccini) e a messo in scena stranieri contemporanei (per esempio »Il caso Makropulos« di Janacek e »Turn of the Screw« di Britten).
Nel 2006 realizza cinque spettacoli collegati tra di loro per i XX Giochi olimpici invernali di Torino. Del 2007 è il progetto «Odissea doppio ritorno», poi ha firmato le regie di La compagnia degli uomini, La modestia, Sei personaggi in cerca d’autore, Ponrografia, Danza macabra, rappresentate al festival di Spoleto. Il suo ultimo spettacolo, «Lehman Trilogy», resta in scena al Piccolo fino a metà marzo.

«Ne ho fatte davvero di ogni... per cui non so dare una definizione di cosa sia un regista», replicava Luca Ronconi il giorno dei suoi 80 anni, e sicuramente il ricordo andava innanzi tutto al suo «Orlando furioso», quella rivoluzione del fare teatro che si realizzava attraverso una festa collettiva e coinvolgente iniziata nel grande spazio della ex chiesa di San Niccolò al festival di Spoleto del 1969, una data che era già un segno.

E poi si potrebbero ricordare tanti altri suoi lavori, tra gli oltre cento firmati in una vita, ma certamente, ricollegabile all’«Orlando» c’è nel 1990 «Gli ultimi giorni dell’umanità» di Karl Kraus nel reparto presse del Lingotto a Torino.

Il segreto del suo essere sempre davvero regista è proprio, infatti, in quell’averne »fatte di ogni«, perché esemplifica un lavorare libero dagli schemi, intervenendo sullo spazio scenico e sulla parola e sul loro rapporto, in modo assolutamente moderno. Non a caso amava dire: «Ho sempre ritenuto che sia difficile fare teatro, come fai a insegnarlo, è un territorio senza regole veramente, oppure ne ha avute poche ed è anche bene che ce le abbia, ma solo per metterle in discussione».

«Orlando» con la giostra in cui coinvolgeva gli spettatori, prima attoniti, poi sorpresi, quindi affascinati, nello spostarsi dei carrelli su cui recitavano gli attori, fu una di quelle rivoluzioni che rinnovano e cambiano di un botto la prospettiva con cui si era sempre guardato e fatto il teatro.

«L’Orlando non è un testo drammatico, quindi non può essere interpretato, ma semplicemente fatto e detto», sottolineava e diceva di aver pensato ai cantastorie nel realizzarne separate e contemporanee le varie scene, che lo spettatore doveva vivere, facendosi parte attiva nel passare da un punto all’altro, nel costruirsi rimandi personali o casuali, viaggiando attraverso un gioco fantasmagorico, tra l’ippogrifo che si alza in volo, duelli o scene d’amore, seguendo il testo tagliato e ricomposto da Edoardo Sanguineti.
«È un microcosmo che riproduce un macrocosmo: le zone dell’Orlando - spiegava lo stesso poeta - non fanno che replicarsi e ingigantirsi sino a raggiungere il livello del poema, e ciò vale anche su scala più piccola, dal punto di vista dei personaggi».

Personaggi che erano interpretati da attori giovani che avrebbero avuto un grande futuro, tra cui Massimo Foschi (Orlando), Ottavia Piccolo (Angelica), Mariangela Melato (Olimpia), Edmonda Aldini (Bradamante), Duilio Del Prete (Astolfo) e Daria Nicolodi (Doralice).
Lo spettatore, come sempre quando si trova davanti al grande teatro, si rispecchia e compie un viaggio in se stesso, vivendo, con l’Orlando di Ronconi, un’avventura tra il meraviglioso e il fantastico, come rileggendo e ritrovando le proprie favole i propri sogni, assieme alle proprie ossessioni e incubi.

Il tutto poi, e l’anno 1969 è in questo senso indicativo, in un coinvolgimento collettivo in cui si ricostruisce il senso di comunità e di condivisione vitale, attiva di una cultura e di esperienze. Una vera rivoluzione, che fece il giro del mondo, dando il meglio di sè nelle realizzazioni all’aperto, in piazza.

Un qualcosa che naturalmente, nella riproposta televisiva dello spettacolo curata dallo stesso Ronconi per la Rai, andava perso, mettendo il pubblico davanti e non dentro il lavoro.
Ronconi pensò allora alla possibilità di realizzare due versioni diverse dello sceneggiato e di mandarle in onda contemporaneamente sui due canali Rai attivi, lasciando allo spettatore la scelta di una delle due versioni e magari la possibilità di cambiare canale nel corso della trasmissione.
Idea bocciata subito dalla Rai e lui, a quel punto, cercando di esaltare la frammentarietà anche nella ripresa tv, fece leva sull’assoluta autonomia dei singoli episodi, scandendo lo sceneggiato in blocchi narrativi autonomi e interrompendo le varie storie al loro punto di massima tensione, allontanando e rendendo generale il punto di vista, secondo schemi che volevano rimandare ai caratteri strutturali e narrativi dello stesso poema ariostesco.

[Ansa]

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