Cabaret Yiddish a Pergine con Moni Ovadia

di Manuela Pellanda

Uno spettacolo che «sa di steppe e di retrobotteghe, di strade e di sinagoghe», che racconta «il suono dell'esilio, la musica della dispersione» assumendo le forme di una vivace e coinvolgente festa yiddish, punteggiata d'ironia ed emozione.

Tutto questo è Cabaret Yiddish, viaggio che Moni Ovadia intraprenderà sul palcoscenico del teatro comunale di Pergine, stasera alle 20.45 . 
Un intreccio di musica e teatro a oltre 20 anni dalla sua prima messa in scena, dopo le fortunate tournée internazionali che ne hanno sancito il successo e diffuso la conoscenza della cultura yiddish e della musica klezmer. E sono appunto «la lingua, la musica e la cultura yiddish, quell'inafferrabile miscuglio di tedesco, ebraico, polacco, russo, ucraino e romeno, la condizione universale dell'Ebreo errante, il suo essere senza patria sempre e comunque» gli ingredienti di questo spettacolo, da cui è derivato il più celebre Oylem Goylem. 

Un viaggio «vivace e non indulgente nella cultura dell'ebraismo tradizionale mitteleuropeo», narrato in forma di cabaret, attraverso un'alternanza dunque di musica e teatro: brani musicali, canti, storielle, aneddoti, citazioni prenderanno forma grazie alla voce di Moni Ovadia, accompagnato dal violino di Maurizio Dehò , dal clarinetto di Paolo Rocca , dalla fisarmonica di Albert Florian Mihai e dal contrabbasso di Luca Garlaschelli .
Un ensemble che s'ispira, come ha raccontato lo stesso Moni Ovadia, alle orchestrine dei lager, costituite da musicisti che erano al contempo testimoni e vittime, accompagnando con le loro note le uscite degli internati che si recavano al lavoro, le esecuzioni capitali, le domeniche dei carnefici. Ma non si tratta, sottolinea ancora l'attore, regista, scrittore, compositore nato nel 1946 in Bulgaria da una famiglia ebraico-sefardita, residente in Italia fin da bambino, di un elemento distinto dalla narrazione: il corpo musicale si muoverà nello spazio scenico, dotato di un'intensa cifra drammaturgica.

Il risultato è, spiega Ovadia, «una forma di rappresentazione semplice e antichissima, che ricorda quei comici che viaggiavano di luogo in luogo, giungendo nelle piazze e mettendo in scena i loro racconti, gesti, canti, senza l'ausilio di grandi apparati. Consegnando così anche alle persone più semplici un intero mondo, un'intera epopea, un vissuto collettivo e individuale». Il tutto naturalmente percorso dal tipico umorismo ebraico che, precisa ancora Ovadia, è molto diverso da quello sbandierato oggi in televisione: è un umorismo che «non irride e non deride», non ferisce e non umilia proprio perché proviene da un uomo che è prima di tutto un individuo fragile. 

Ed è per questo che il viaggio intrapreso dal protagonista della serata e dai suoi musicisti precipita a un tratto nell'abisso per poi risollevarsi, proseguendo il racconto con l'immediatezza e la sincerità di chi, pur figlio e rappresentate del popolo ebraico - o forse proprio per questo - non esita ad esprimere la propria vicinanza al popolo palestinese. «Naturalmente io sono solidale col popolo palestinese - ha dichiarato Ovadia - proprio perché sono ebreo. È il mio dovere di ebreo essere solidale con tutte le persone che soffrono a causa di ingiustizie, e quindi lo sono come essere umano, prima di tutto. L'etica della Torah, peraltro, è in piena sintonia con quella dei diritti fondamentali dell'uomo».

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