Giustizia / Il caso

Ricorso per stare in carcere in Italia: preso su mandato di arresto europeo, non vuole tornare in Polonia

L'uomo vive in Valsugana, dove stanno anche i parenti, e ha un lavoro. Nessuna lamentela nei suoi confronti, né è mai finito nei guai in Italia per comportamenti illeciti. Il problema è ciò che ha combinato nel suo paese d'origine anni fa. Ecco cosa hanno deciso i giudici italiani

TRENTO. Nato in Polonia 54 anni fa e nel 2018 condannato dal tribunale di Kielce (città che si trova fra Varsavia e Cracovia), non potrà espiare la pena nelle carceri italiane come avrebbe voluto. La risposta negativa, che significa la reclusione in una struttura polacca, è arrivata sia dalla Corte d'appello di Trento che dalla Cassazione. L'uomo da qualche tempo vive in Valsugana, dove stanno anche i parenti, e ha un lavoro. Nessuna lamentela nei suoi confronti, né è mai finito nei guai in Italia per comportamenti illeciti.

Il problema è ciò che ha combinato nel suo paese d'origine anni fa. Con sentenza pronunciata nel marzo 2018 e diventata irrevocabile il mese dopo, la giustizia polacca lo ha condannato a 3 anni e 10 mesi per i reati di detenzione e cessione di illecite sostanze psicotrope, ricettazione, guida senza patente, detenzione illegale di munizioni. La cattura è avvenuta a Trento lo scorso febbraio ed è stato convalidata dal presidente della Corte d'appello, che ha disposto la custodia cautelare in carcere e la consegna al Paese che ha emesso la sentenza.

Trattandosi di procedura su mandato di arresto europeo, l'uomo ha chiesto l'applicazione di una delle garanzie riconosciute a livello Ue, ossia la possibilità di trascorrere il periodo di detenzione nel paese di esecuzione, in questo caso l'Italia, in quanto residente abituale nel Bel Paese. Ma ha fatto un autogol: i giudici della Corte d'appello rigettando la sua richiesta hanno infatti ricordato che in sede di arresto aveva lui stesso dichiarato di non parlare e di non comprendere la lingua italiana.

A fronte di queste dichiarazioni, ben poco hanno contato le dichiarazioni di febbraio 2024 del datore di lavoro con la valutazione dell'attività dell'uomo, la disponibilità (resa a marzo) di un parente ad ospitarlo in Valsugana, il contratto di assunzione "a tempo determinato e a tempo pieno" dello scorso gennaio: si tratta di documentazione che non dimostra un significativo radicamento del soggetto al territorio. L'uomo, tra l'altro, non risulta neppure registrato all'anagrafe del Comune in cui ha dichiarato di vivere da almeno cinque anni.

La decisione della Corte d'appello, basata sulla valutazione di elementi indicati dalla legge vigente, è stata condivisa dalla Cassazione. Per quanto riguarda il requisito temporale, ossia il radicamento sul territorio, gli Ermellini evidenziano prima di tutto che la difesa non ha presentato atti tali da dimostrare che l'uomo sia in Italia da anni. Pesano inoltre la mancata iscrizione all'anagrafe e il riferimento ad attività lavorative che sono del passato, anzi di un recente passato dato che non sono anteriori al 2022.

In merito al requisito linguistico, la sentenza della Cassazione sottolinea che «l'incapacità di parlare e di comprendere la lingua italiana smentisce ogni ulteriore elemento di collegamento addotto dalla difesa» e depotenzia sia il possesso della tessera sanitaria con decorrenza del gennaio 2022, sia la titolarità del codice fiscale. Il ricorso dell'uomo è stato rigettato: lo attendono le carceri della Polonia.

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