Volontariato/L’intervista

Stefano Di Carlo, il trentino al vertice di Medici senza frontiere: «A Gaza violato il diritto umanitario»

Il volontario trentino è direttore della sezione italiana dell’organizzazione: un’esperienza cominciata 15 anni fa in Bolivia. «Il racconto drammatico dei colleghi dall’ospedale Al Shifa nella Striscia, operazioni chirurgiche nei corridoi senza anestesia»

di Nicola Maschio

TRENTO. La voglia di aiutare gli altri e di affrontare le sfide più difficili. Una vocazione, quella del volontario, che ha scandito la vita del trentino Stefano Di Carlo, da quindici anni operatore umanitario di Medici Senza Frontiere e, dal 2021, direttore generale della sezione italiana dell'organizzazione. Tutto questo però in uno scenario internazionale terribile: prima l'invasione russa in Ucraina, ora il massacro a Gaza, dove attualmente si trovano operatori di Medici Senza Frontiere - non italiani ma appartenenti e coordinati dalla sezione locale dell'organizzazione - impegnati a gestire situazioni di estrema complessità.

Di Carlo, partiamo dal principio: quando e come nasce il suo legame con il mondo del volontariato?

Quindici anni fa, terminata l'università, ho fatto la mia prima esperienza in Bolivia, dove ho lavorato per quattordici mesi in un progetto di costruzione di serre e miglioramento degli allevamenti, per combattere la malnutrizione. È stata un'occasione bellissima per crescere. Successivamente, Medici Senza Frontiere mi ha mandato ad Haiti in un ospedale per la maternità, nella città di Port-au-Prince, in un contesto vicino alla periferia e con grande violenza urbana.

Immagino che non sia semplice operare in certi ambienti: cosa spinge un volontario a seguire questa strada, una volta compresi i pericoli?

In ogni esperienza ho avuto modo di confrontarmi con la realtà locale, trovando accoglienza e sostegno. Con il tempo, ho capito che Medici Senza Frontiere si fonda su principi e valori legati all'umanitarismo, che condivido. Noi non giriamo con scorte o mezzi blindati, ma tutta la protezione che riceviamo deriva unicamente dal legame che riusciamo a stringere con la comunità. Credo poi che ogni persona trovi dentro di sé un motivo particolare per proseguire, oppure per rinunciare. Ho visto ragazze e ragazzi fare una prima esperienza e poi tirarsi indietro: lo capisco, è una cosa normale.

Nel suo caso specifico, cosa è scattato? Perché ha deciso di voler puntare sul volontariato, tanto da diventare direttore italiano di Medici Senza Frontiere?

L'ho interpretata come l'evoluzione naturale del mio percorso. Oggi, dopo qualche anno, è una carica che vivo serenamente e che è arrivata per via di un "allineamento" di tanti fattori, dalla mia crescita personale fino agli obiettivi che l'organizzazione si stava ponendo per il futuro. Ho pensato che avrei potuto portare qualcosa di mio e che avrei affrontato le sfide con il giusto approccio. E poi vengo da un terra, come Trento, che il prossimo anno sarà anche capitale europea del volontariato!

Ci sono però altri rischi nella vita di un operatore umanitario, come quelli sanitari…

Certamente. Ad Haiti per esempio abbiamo affrontato l'emergenza del colera, ma in altri Paesi ci siamo dovuti misurare con varie epidemie e, di contro, protocolli di sicurezza specifici. I volontari sanno a cosa vanno incontro, ma il legame che si crea con la popolazione locale è unico e permette di superare i momenti difficili. Proprio lavorando in contesti sanitari critici abbiamo sviluppato capacità che, durante il Covid, si sono poi rivelate fondamentali.

Parliamo della pandemia: come l'avete affrontata e quanto ha impattato sulle vostre attività?

Un grande ostacolo è stata l'impossibilità di spostarsi nei vari Paesi. Ma per fortuna abbiamo molti collaboratori locali, con cui siamo riusciti a coordinarci. Poi è arrivata l'assenza di alcune "materie prime", come le mascherine, e i successivi protocolli di sicurezza. Dal canto nostro però avevamo già conoscenze rispetto alle gestione di emergenze sanitarie, dall'ebola al colera, così abbiamo dimostrato come un'organizzazione umanitaria internazionale sa rendersi utile anche nel contesto "di casa".

In appena due anni abbiamo assistito all'invasione russa dell'Ucraina ed ora al massacro del conflitto israelo-palestinese. Qual è il ruolo di Medici Senza Frontiere all'interno di questi scenari?

Morti e feriti ormai sono soprattutto civili. Bambini, in particolare. Rispetto agli scontri a Gaza, proprio qualche ora fa abbiamo perso i contatti con l'ospedale di Al Shifa, ma le ultime notizie ricevute erano tragiche. I colleghi ci hanno riferito di operazioni chirurgiche nei corridoi, senza anestesia per via della mancanza di medicinali. E alcuni di loro non ce l'hanno fatta. Per non parlare dei bambini scaldati con metodi alternativi alle incubatrici, a causa della mancanza di corrente. Non c'è più rispetto del diritto umanitario e questa cosa è terribile. Ci fa paura.

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