Giustizia / Il caso

La richiesta di cittadinanza è negata ad un albanese: non può diventare italiano perché suo fratello spaccia

Il ragionamento del Tar del Lazio: “Vivendo assieme al fratello, che fra il 2013 e il 2014 ha collezionato diverse condanne, potrebbe vedersi indotto ad agevolare, anche soltanto per ragioni affettive, comportamenti contrastanti con l'ordinamento giuridico”

di Marica Viganò

TRENTO. Un trentenne, nato in Albania e residente in Trentino da oltre dieci anni, si è visto respingere per ben due volte la richiesta di diventare cittadino italiano, prima dal ministero dell'Interno e poi - a seguito di ricorso - dal Tar del Lazio. Il motivo? Vive assieme al fratello, che fra il 2013 e il 2014 ha collezionato diverse condanne per spaccio di sostanze stupefacenti. Il ragionamento del Tar sezione quinta bis, accogliendo la tesi del Ministero, è che il trentenne potrebbe «vedersi indotto ad agevolare, anche soltanto per ragioni affettive, comportamenti contrastanti con l'ordinamento giuridico».

Si dice che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, ma per i giudici amministrativi la presenza in famiglia di persone che non hanno la fedina penale immacolata può giustificare il diniego alla cittadinanza. L'uomo aveva presentato ben otto anni fa la domanda, respinta nel 2019 con decreto del ministero dell'Interno. Ha poi fatto ricorso e la risposta è arrivata solo ora: niente cittadinanza, sebbene nel frattempo siano diventati italiani la sorella e pure i genitori. Il Ministero ha ricordato una sentenza del Tar del Lazio del 2015 secondo cui «il comportamento penalmente rilevante di familiari di primo grado... può essere preso in considerazione al fine di motivare il diniego della cittadinanza italiana... in quanto esso è un indice della integrazione del nucleo familiare nel quale l'istante vive».

In questo caso si tratta di due fratelli conviventi: uno ben integrato nel tessuto sociale, impegnato nel lavoro (un passato come cameriere e pizzaiolo, un presente nel settore dell'edilizia) e incensurato, l'altro più volte inciampato nella giustizia. Con il primo che si trova a "pagare" gli errori del secondo. I giudici amministrativi evidenziano che c'è «un'amplissima discrezionalità a capo dell'Amministrazione» in materia di concessione della cittadinanza, che consiste da una parte nel valutare l'inserimento della persona all'interno della comunità e dall'altra l'interesse pubblico, ossia la tutela della sicurezza e della stabilità economico-sociale.

Fra i requisiti che vengono ritenuti necessari ci sono l'assenza di precedenti penali, un reddito sufficiente a mantenersi, una condotta di vita che esprime integrazione sociale e il rispetto dei valori di convivenza civile. La cittadinanza, come viene spiegato nella sentenza del Tar, è concessa «mediante giudizio prognostico che escluda che il richiedente possa successivamente causare problemi all'ordine e alla sicurezza nazionale». Una valutazione viene fatta anche sul tipo di reato. E questo è un altro punto a sfavore del trentenne, perché «i precedenti penali per cessione illecita di sostanze stupefacenti denotano scarsa considerazione degli obblighi che si accompagnano alla concessione della cittadinanza, trattandosi di condotte indice di inaffidabilità e di una non compiuta integrazione nella comunità nazionale».

Lo spaccio è fra i reati che destano particolare allarme sociale - viene ribadito nella sentenza - al punto che all'autore degli episodi di spaccio viene precluso il conseguimento della cittadinanza anche nel caso in cui è coniuge di un cittadino italiano. Nel caso specifico, i guai con la giustizia sono responsabilità solo del fratello del trentenne che vorrebbe diventare italiano.

Ma viene meno anche il principio della responsabilità penale personale, perché la concessione della cittadinanza - è il ragionamento dei giudici amministrativi - comporta benefici indiretti per gli altri membri del nucleo; ad esempio non si possono espellere dal territorio italiano i parenti entro il secondo grado. Se la sorella, come accertato, ha ottenuto la cittadinanza italiana è solamente perché appartiene da tempo ad altro nucleo familiare. Il trentenne, difeso dall'avvocato Michele Busetti, valuterà ora se presentare appello.

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