Chiesa / L’intervista

Le prime parole di Ivan Maffeis, neo vescovo di Perugia: «La pandemia ha portato dolore la Chiesa dia parole di speranza”

Ha saputo tutto martedì scorso dal nunzio. E spiega: “Un altro no sarebbe sembrato ridicolo”.
Il tono è quello di chi è onorato sì, ma anche spiazzato da un compito che lui non ha cercato né, forse, auspicato davvero. E lo ripete a chiunque lo chieda: lui a Rovereto era stato assegnato, e lì avrebbe voluto stare

di Chiara Zomer

TRENTO. «Avverto la sproporzione tra quello che sono e la responsabilità che mi è stata affidata. Non è un modo di dire. Mi affido alla vostra amicizia». Nelle prime parole dopo la notizia della sua nomina a vescovo di Perugia don Ivan Maffeis si schermisce: «Un altro no sarebbe sembrato ridicolo».
E il tono è quello di chi è onorato sì, ma anche spiazzato da un compito che lui non ha cercato né, forse, auspicato davvero. E lo ripete a chiunque lo chieda: lui a Rovereto era stato assegnato, e lì avrebbe voluto stare. Sembra stupito.
Quando ha saputo della nomina, e da chi?
«Dal nunzio, martedì».
È stata davvero una sorpresa, o questo passaggio era in qualche modo nell'aria? In realtà al momento della sua nomina a parroco di Rovereto, c'era chi parlava di lei come di un predestinato.
«Io sono stato 11 anni a Roma. Quando sono tornato in parrocchia, a Rovereto, l'ho fatto in maniera convinta, pensando che ho quasi 60 anni. Il resto della vita attiva, volevo cercare di spenderlo restituendo quel che ho avuto, tra la gente. Con questo spirito sono andato a Rovereto, nelle parrocchie che il vescovo mi aveva affidato. Per quella che era anche una scelta di vita. Tornare su, per me, ha significato davvero cercare di mettersi dentro la realtà delle persone».
Ne parla come se fosse parte di un viaggio interiore.
«Sì. Non so come dire. Per me tornare in parrocchia non era aggiungere un piano in più all'edificio della mia vita. Era come andare in cantina, per verificare se quel che tu dici, hai detto, hai fatto, ha un fondamento per la tua vita. E per capire se io davvero corrispondevo a tutto questo».
E cosa ha capito, nei mesi che è stato a Rovereto?
«La risposta della gente, quotidiana, è quella che ti segna. Ho celebrato oltre 250 funerali in meno di due anni. Ho toccato il dolore che c'è. La pandemia ha prostrato tante famiglie. È un dolore che non conosciamo, aggravato dalla lontananza. Questo soprattutto nel primo periodo. E poi ora, con la ripresa delle attività, c'era il rapporto con i ragazzi, il grest. In questo orizzonte mi sono ritrovato».
Ha fatto riferimento alla pandemia. Come si è comportata la Chiesa, quali risposte ha saputo dare?
«Io credo che ci sia stata una presenza significativa sul fronte carità, c'è moltissima gente pronta a mettersi in gioco. Su questo fronte, la chiesa ha fatto davvero tanto in mesi molto difficili».
E c'è qualcosa su cui si poteva agire con più efficacia?
«Credo che quel che poteva essere fatto in più, era cercare di decifrare un evento di questo tipo qui, provando a leggerlo con gli occhi della fede e della speranza. Questo è stato più difficile, anche perché eravamo coinvolti, non spettatori. Abbiamo fatto molto, anche con i social. Ma serve di più. Perché il dolore che c'è nel paese è talmente alto, che ci si aspettava che parole come vita eterna, resurrezione, che appartengono al patrimonio dell'esperienza cristiana, venissero declinate per l'uomo d'oggi. Dobbiamo essere una chiesa capace di farsi carico anche del dolore, anche degli interrogativi, e di restituire quella speranza possibile, per aprire piste di fiducia».
Guardando la Chiesa dalla prospettiva del futuro, si pensa ai giovani. Le chiese sembrano popolate soprattutto di anziani. È così? È un problema?
«È anche così, è vero. Ma nel contempo ho visto i giovani, di Terragnolo, Noriglio, Rovereto, che hanno fatto il grest in queste settimane, pronti a mettersi in gioco, con creatività. Loro ci sono, hanno un linguaggio diverso dal nostro, certo, ma hanno una grande disponibilità. Cosa dobbiamo fare per loro? Ci viene chiesto, come preti, di metterci in gioco senza alcun altro interesse che il loro bene».

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