Le voci di medici e infermieri eroi in prima linea in Trentino

di Matteo Lunelli

«Andrà tutto bene». Lo dice Giulia a tutti. Lo dice oggi, soprattutto oggi, ma lo diceva anche un mese fa o un anno fa, a quel paziente che era appena entrato in ospedale o che stava per entrare in sala operatoria. Lo dice Giulia, ma lo dicono anche Lucia, Francesca, Federica, Marta, Chiara, Marco e Paolo. Lo dicono centinaia di infermiere e di infermieri in Trentino come in tutta Italia. Lo dicono le dottoresse e i dottori. Ma adesso è giunto il tempo in cui dobbiamo essere noi, tutti noi, a dirlo a loro. Il grazie è ovvio, sottinteso, ma non può nascondere le loro paure. Perché se tutti dobbiamo stare a casa, loro non possono. E non vogliono.

Come da nuovo protocollo, anche se positivi al tampone devono mettersi la mascherina e andare in corsia. Si alzano all'alba ed escono con il buio, prendendosi cura di tutti noi. Del caso sospetto come di quello con un osso rosso, in ugual modo. Pensiamoci un po', mentre facciamo telelavoro o siamo semplicemente in ferie a guardare l'ennesima serie su Netflix, mentre ci lamentiamo di non poter andare in bicicletta o mentre sentiamo i sindacati perché stiamo perdendo dei soldi, mentre cerchiamo un modo per organizzare la vita con i bambini a casa, mentre leggiamo il giornale per capire cosa stia effettivamente accadendo o mentre cerchiamo possibili lacune nei decreti per aggirarlo: pensiamo che loro ogni giorno, proprio in questi giorni, non rispettano il decreto, a casa non ci stanno ed entrano in quelle corsie e in quei reparti, dove il virus che ci fa tremare i polsi è appena passato o è ancora presente. E stanno lì per ore. In questi giorni in tanti sono rimasti molto più a lungo dell'orario previsto. Senso del dovere? Anche. Ma soprattutto perché i casi sospetti di Coronavirus sono stati ovunque, e allora si resta in reparto, magari in uno stanzino, ad aspettare l'esito del tampone, ripensando a quanti contatti c'erano stati con quel paziente risultato poi positivo.


Una di loro, Chiara, ce lo racconta. Ci racconta quello che sul giornale occupa magari mezza riga, ma per loro è una pagina intera di sensazioni ed emozioni.
«L'attesa dell'esito del tampone è snervante, in reparto c'è un silenzio irreale. Ognuno di noi sta pensando a quante volte è entrato nella stanza della signora ieri, prima che sviluppasse tosse e febbre. E si pensa alle persone con cui si è venuti a contatto dopo il turno del pomeriggio. La mascherina filtrante e il camice rendono ogni movimento e ogni pensiero ancora più lento e ancora più affannoso. "Devo mantenere la lucidità" penso, mentre ripasso mentalmente la procedura di svestizione poco prima di uscire dalla stanza della signora. "Ho fatto tutto? Terapia, cambio della biancheria, parametri vitali. Ah! Le apro la bottiglia nuova dell'acqua che ha finito quella di stamattina"».

Dare da bere alla signora. Ecco. Quella è la priorità del momento.
«Accorpare tutte le attività è vitale se stai assistendo un paziente sospetto o infetto: prepararsi ad entrare nella camera di isolamento è un rituale quasi mutuato dalla guerra. Copricapo, armatura e un piano ben preciso. Svestirsi è ancora più complesso, devi essere certo di non contaminare nulla e i passaggi da seguire sono molto precisi, li hai letti cento volte ma poi farlo davvero è tutta un'altra storia».

Sanno di entrare e sanno di timbrare il cartellino, ma non sanno se e quando usciranno da lì. Indossano quella mascherina e tenerla tutto il giorno, ci assicurano, non è bello e non è facile. Quello che noi proviamo a scrivere e a raccontare ogni giorno loro lo vedono passare sotto i loro occhi, lo vedono in una barella o in una persona intubata. Ogni sera, o ogni alba, vanno e tornano dall'ospedale.

Dal Santa Chiara, ma anche dal Santa Maria del Carmine di Rovereto, dove ci sono i casi più gravi. O dagli ospedali periferici, quelli magari più "tranquilli" in ogni altro periodo dell'anno, ma in questi giorni più esposti. Espressioni tese nascoste dietro la mascherina, email che arrivano con nuove direttive, protocolli di emergenza da applicare nell'immediato. Primario e medici, coordinatori infermieristici e infermieri, oss e personale tecnico: un'unica squadra, nella quale nessuno tira indietro, nessuno si nasconde dietro legittime paure. Il picco sta per arrivare, dicono i medici, e allora anche il nervosismo sale. Ma per loro non c'è nessun "rischio" di telelavoro: se un paziente va rianimato non esiste una App. Se bisogna massaggiare un arresto cardiaco non c'è un software apposito. E se quel paziente è un caso sospetto? Ci sono le procedure ok, ma se c'è da salvare una vita si salva una vita.

«Non sono un'eroina, non sono un angelo, non sono una martire. Sono solo un'infermiera», ha scritto su Facebook un paio di giorni fa una di queste persone, una Giulia qualsiasi tra centinaia di medici, infermieri e oss che sono lì in corsia, ogni giorno, a ogni ora, tra rischi e responsabilità. Sproporzionate rispetto allo stipendio: welcome to Italy, d'altra parte. Ma chissà che non ci si renda conto, in questa emergenza, anche di quell'aspetto.

«Io sono pronta a turni massacranti, a dare il 200%, a rischiare la mia salute, a dare il meglio per prendermi cura di voi. Io dico "andrà tutto bene" a voi. Ma voi non dimenticate di dirlo a noi che siamo, prima che professionisti sanitari, persone. Ognuno di noi sta dando il massimo ma ricordatevi che anche noi siamo nelle vostre mani. Per una volta siete anche voi che dovete avere cura di noi e dell'altro. La gestione di questa emergenza dipende da voi. Voi state a casa. Al resto pensiamo noi». E c'è da fidarsi. Lo stanno già facendo e continueranno a farlo. E ogni giorno torneranno a casa e dovranno anche fare da cena ai bambini e correggere i compiti, con la stessa premura con la quale accolgono il paziente. E poi continueranno a non restare a casa, ad andare a salvare le vite e a prendersi cura di noi.

Anche Valeria lo farà. Ce lo assicura tramite Facebook. «Io, noi professionisti sanitari non siamo supereroi, non abbiamo superpoteri: abbiamo paura come voi, forse più di voi. Sì, abbiamo paura, perché noi a casa non ci possiamo stare, il nostro lavoro (che ci siamo scelti, non chiamatela missione) ci impone di entrare ogni giorno in un luogo a rischio, e lo facciamo anche per voi (anche voi che non state a casa), per assicurare a tutti il diritto alla salute. Lavoriamo con la paura di sbagliare a toglierci un guanto, con una mascherina i cui elastici fanno male dietro alle orecchie, che ti fa sudare, fa appannare gli occhiali ogni volta che respiri e con dei camici scomodi. E state in casa. Punto. In casa. Proprio voi che poi ci chiamate eroi, fatevi un esame di coscienza e state a casa. Con un po' di pazienza e rispetto delle regole andrà tutto benee torneremo ad abbracciarci».
Giulia, Valeria, Chiara e tutti gli altri ci chiedono di dire loro che «andrà tutto bene», perché anche a loro serve sentirselo dire. E allora glielo diciamo, aggiungendo che, citando la canzone di Glen Hansard, " may good hope, walk with you through everything ". Che la speranza possa camminare sempre al vostro fianco. Lungo quelle corsie, attraverso quelle mascherine e quelle paure. Sarà lunga e sarà dura, ma sapere di avere queste persone che ci aprono anche la bottiglietta dell'acqua è una delle poche certezze, proprio mentre capiamo la nostra fragilità. Andrà tutto bene.

 

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