Maria, una suora chirurgo nel cuore dell'Africa

di Alberto Folgheraiter

Che relazione c’è tra un medico chirurgo e una religiosa? E se la professione e la vocazione sono condensate in un’unica persona, chi è Maria Martinelli, 60 anni, da Calceranica, dottoressa in malattie tropicali e in chirurgia? Quest’ultima specializzazione conseguita sul campo con oltre duemila interventi all’anno: dal cervello alla punta dei piedi. Da trent’anni opera sulla porta dell’inferno dell’umanità, negli ospedali di frontiera dell’Africa: dall’Etiopia all’Uganda, dal Ciad al Sud Sudan.
Eccola, mentre torna dalla messa con il polso sinistro ingessato (una banale caduta, qualche giorno fa), e il braccio al collo, dal quale pende una croce di metallo. Unico segno che la fa individuare quale religiosa.

Perché si è fatta suora questa donna dai capelli d’argento che dicono più di una medaglia d’oro al merito della sanità?

«La mia vocazione è cominciata con la percezione che dovevo studiare medicina per andare in Africa. Contestualmente c’è stato un approfondimento di fede e ho capito che c’era qualcosa di più di un semplice servizio di volontariato».

Tra le due «vocazioni», qual è stata la prima?

«Credo si siano manifestate contemporaneamente. La vocazione religiosa si è sviluppata come servizio ai poveri dell’Africa».

Maria Martinelli cominciò a pensare di farsi suora già in terza liceo, al «Galilei» di Trento dov’era approdata dopo le scuole medie frequentate a Pergine. Tre zie suore in famiglia (tutte della congregazione della Provvidenza, di cui due infermiere al «San Matteo» di Pavia) potevano aver acceso un cerino. Ma hanno probabilmente sbagliato ad attizzare il fuoco poiché, quando, ormai laureata a pieni voti, si è decisa a scegliere una congregazione religiosa, Maria Martinelli ha bussato alla porta della suore Comboniane di Verona. Poco male, si dirà.

Benché la suora-chirurgo non lo ammetta, è lecito supporre che le zie non l’abbiano presa proprio bene. Anche perché tutte le congregazioni lamentano una crisi irreversibile di vocazioni (almeno nel nord del mondo) e una tonaca in più, magari con dentro una professionista della sanità fatta e finita, non ce la si lascia scippare senza battere ciglio.

Lei sorride: «Non è che ci sia concorrenza. Da una parte o dall’altra è sempre un servizio al Regno de Dio».

Le suore comboniane con la laurea in medicina sono sette: tutte in Africa, tranne la più anziana che è rientrata in Italia. La più giovane, una portoghese, ha pronunciato i voti due anni fa e adesso sta imparando l’arabo in Giordania. Poi andrà a Wau, in Sud Sudan, per prendere il posto di suor Maria Martinelli la quale, dopo aver fondato e diretto l’ospedale per sei anni, è stata designata dalla sua congregazione quale superiora provinciale per quella zona dell’Africa. Dovrà sovrintendere a otto comunità, formate da 35 religiose. Salvo ulteriori incarichi, nei prossimi tre anni suor Maria Martinelli si sposterà tra Nairobi, in Kenya, e Juba, la capitale del Sud Sudan.
«Dovrò cambiare mestiere, spero per un periodo non lunghissimo. Mi hanno chiesto di fare questo servizio e non potevo che rispondere sì. D’altra parte la mia è una chiamata alla missione non solo alla professione».

In sala operatoria prevale il medico o la suora?

«Quando si lavora è prevalente la figura professionale. Io ce la metto tutta per salvare il paziente che ho sotto i ferri, ma alla fine, quando mi tolgo i guanti e la mascherina, ripeto a me stessa che, alla fine, il padrone della vita è soltanto Dio».

[[{"type":"media","view_mode":"media_original","fid":"1606091","attributes":{"alt":"","class":"media-image","height":"2433","width":"1425"}}]]

Al ritorno in Sud Sudan, a metà agosto, l’attende il servizio alla congregazione con il velo da suora che sostituirà la mascherina da chirurgo.

«Anche perché, adesso, all’ospedale di Wau c’è un confratello comboniano, chirurgo, che andrà avanti come direttore e poi ci sono due medici sud sudanesi. Pertanto la mia presenza non è più così determinante come poteva essere fino allo scorso anno».

Può un chirurgo smettere l’attività per tre anni, senza perdere la manualità?

«L’ho già fatto in passato, perché ero stata incaricata di impegnarmi in altre faccende, sia pure connesse con la medicina. Penso che dopo venticinque anni di sala operatoria, se ci si prende un periodo sabbatico non è che la manualità vada in soffitta. E non è neppure detto che non farò più il chirurgo. Come superiora dovrò visitare periodicamente le comunità, tra le quali c’è anche Wau».

Al «Comboni Hospital» di Wau, che ha cento posti letto, fa riferimento una popolazione di circa mezzo milione di abitanti. La struttura sorge a meno di un chilometro dal fronte di una guerra civile infinita, con due milioni di morti tra il 1955 e il 2011. La guerra è ripresa a divampare in alcune aree del Paese nel 2013, mentre a Wau da giugno del 2016. In concomitanza con le celebrazioni per i primi cinque anni di indipendenza del sud Sudan. Notizie delle agenzie internazionali parlano di trecentomila morti e due milioni di sfollati dal 2013 a oggi.
Migliaia di sfollati e di profughi bivaccano accanto all’ospedale della dott. Martinelli; tredicimila attorno alla cattedrale di Wau.
Ufficialmente, la ripresa della guerra è di tipo etnico fra i Dinka e Nuer (in Sudan ci sono almeno 64 etnie) ma la vera causa è nella lotta per il potere che passa attraverso la corruzione e l’accaparramento da parte delle grandi potenze delle risorse naturali (petrolio, oro, rame, zinco, uranio, diamanti, tugsteno). Si parla pure di genocidio.

Suor Maria, ha mai temuto per la sua incolumità personale?

«Viviamo in un Paese sottosopra e quando ti svegli nel cuore della notte perché bombardano e sparano vicino, la paura c’è. Se poi ti chiamano alle tre di notte per correre a praticare un parto cesareo e devi uscire dalla porta, attraversare due strade… la paura fa quaranta. Una notte mi hanno fermata due uomini in motocicletta, hanno superato la mia vettura e mi hanno puntato addosso un fucile, intimandomi di aprire la portiera. Cosa che mi sono ben guardata dal fare. Io ero impietrita e incapace di reagire ma me la sono cavata. Insomma mi hanno lasciata andare».

Quando entra in sala operatoria, una suora chirurgo invoca il Padreterno prima o dopo l’intervento?

«Prima, durante e dopo. E quando sei in prima linea ti devi occupare di tutte le patologie. Lo scorso anno sono stata per mesi l’unico chirurgo di guerra sul mercato. Si doveva intervenire dappertutto perché le pallottole vanno dove capita: dalla testa, alle spalle, alle gambe. Gli interventi di routine sono le ernie, frequenti sia nei maschi che nelle femmine, in Africa; ostetricia e ginecologia, in particolare i parti cesarei. Questi sono sempre urgenti perché, di frequente, le signore arrivano all’ultimo momento; e poi patologie intestinali, amputazioni. Insomma, tutto quello che capita in un ospedale africano, con due medici e pochi infermieri».

Nella sua zona è presente l’infibulazione, una delle orribili pratiche tribali dell’Africa mussulmana?

«Da noi c’è qualche caso, ma si tratta di donne che sono arrivate dal Nord».

[[{"type":"media","view_mode":"media_original","fid":"1606096","attributes":{"alt":"","class":"media-image","height":"1750","width":"1800"}}]]

Al principio del Terzo millennio, lei è stata l’unica suora, assieme al superiore generale dei Camilliani, a dire chiaramente al Papa e alla Chiesa cattolica che per fermare l’Aids, in Africa, era necessario diffondere l’uso del profilattico.

«Noi eravamo i portavoce della “Commissione salute” dei superiori generali delle congregazioni religiose. Io, in particolare, essendo segretaria del gruppo, avevo il compito di partecipare a riunioni con i rappresentanti dell’Onu e altri organismi e a spiegare loro la posizione dei medici cattolici sul campo. L’uso del profilattico era propugnato dalla maggior parte delle organizzazioni laiche come unica via per la prevenzione del contagio da Hiv. Noi dicevamo: non è l’unica via, bisogna fare in modo che in Africa e nel Terzo mondo vengano modificati gli stili di vita sessuale. Se proprio si deve, si scelga almeno il male minore».

L’uso del profilattico pareva allora una scelta coraggiosa e necessaria per fermare la diffusione dell’Aids. Ma fu subito scandalo, soprattutto fra i benpensanti delle retrovie che praticano la religione a singhiozzo.

Che cos’è il «mal d’Africa», suor Maria?

«È un po’ un mito. Più che malata d’Africa, io sono contenta della mia vita, della mia vocazione. E se la mia congregazione chiama, come ha fatto, a un servizio diverso dalla professione medica, io faccio parte della congregazione che è la mia famiglia e non dimentico che ho fatto voto di obbedienza. Quando ero Novizia, la madre-maestra diceva che la discussione intorno a una decisione che riguardava il voto di obbedienza serviva solo a obbedire meglio».

[[{"type":"media","view_mode":"media_original","fid":"1606101","attributes":{"alt":"","class":"media-image","height":"1830","width":"2433"}}]]

Lei ha un sogno nel cassetto, un desiderio inespresso?

«Mi piacerebbe che ci fossero delle giovani che scelgono la missione a tempo pieno. A sessant’anni, sono l’ultima suora trentina entrata fra le Comboniane. Francamente, mi piacerebbe che ci fossero altre ragazze che decidono di far parte della compagnia, a servizio della missione».

L’altra sera è morto uno zio di suor Maria Martinelli. Si è recata in casa dei cugini e quando è arrivato il medico di guardia per il certificato di morte dello scomparso, la suora di Calceranica si è trovata di fronte un collega… africano. Un immigrato dal Camerun il quale, saltuariamente, fa il medico di guardia in provincia di Trento. Maria Martinelli ha sorriso amaramente. Trent’anni fa, lei è emigrata in Africa per fare il medico in modo permanente, perché lì i bisogni sono immensi e servirebbero medici. Soprattutto africani.

Salva

comments powered by Disqus