Massimo Nascimbeni, una vita spesa a «rianimare» le persone

Se ne va in pensione una delle colonne portanti dell'elisoccorso trentino

di Patrizia Todesco

Da piccolo aveva due sogni: diventare medico oppure pilota per solcare i cieli. Li ha realizzati entrambi. Massimo Nascimbeni, classe 1952, medico rianimatore e colonna portante del nucleo elicottero, una istituzione nel mondo del soccorso per le sue capacità tecniche, ma anche per le sue doti umane, tra pochi giorni andrà in pensione. La scorsa notte è stata per lui l'ultima di lavoro. «Avrei potuto lavorare ancora qualche anno ma credo di aver dato abbastanza. Il mio, soprattutto quello al nucleo elicotteri, è un lavoro per giovani che devono avere anche il fisico per muoversi in certi ambienti a volte ostili. Certamente avrò una grande nostalgia di quanto fatto in questi anni, ma sono contento così».

37 anni di servizio attivo, 36 anni nell'elisoccorso la cui storia è legata strettamente al suo nome.
Mi ero appena laureato, erano gli anni in cui si poteva lavorare durante la specialistica, e nel 1979, quando ero tirocinante, nacque l'idea dei soccorsi con l'elicottero, come già avveniva in Svizzera. Con il dottor Busetti e Bellutti iniziammo a muovere i primi passi anche se l'Azienda non vedeva di buon occhio la proposta. Da lì siamo arrivati al «mostro» che l'elisoccorso è oggi. 

E ora in che direzione sta andando l'elisoccorso? Ormai viene utilizzato a tutte le ore del giorno e della notte e gli interventi si stanno moltiplicando di anno in anno. 

Ora serve a tamponare tutto, ma si può crescere ancora. Siamo a livelli elevatissimi, sia come macchine che come personale. C'è una bella schiera di medici nuovi e motivati a cui lasciamo una bella eredità.

E nel suo futuro ora cosa c'è?

Sicuramente un bel periodo di vacanza. Io sono istruttore dell'emergenza e spero di poter continuare a trasmettere un po' di esperienza.

In tanti anni di lavoro qual è l'episodio che l'ha maggiormente segnata?

Sicuramente l'incidente sul Vioz nel 1998 quando la scampai per un soffio. Eravamo saliti per un malore. Recuperato il ferito con il verricello l'elicottero perse quota, toccò con le pale la roccia e precipitò verso la val della Mite. Sono vivo grazie a Giuseppe Simonetti, che mi ha dato il tempo di scendere a terra, e a Piergiorgio Vidi che mi ha sganciato dal verricello. Una frazione di secondo e sarei precipitato come è accaduto al ferito che stavamo trasportando e che poi ho soccorso. Proprio a lui è legato un altro evento che mi ha molto colpito. Lo stesso signore (Luigi Pontara, ndr), dopo quel drammatico evento e le manovre di rianimazione che feci per salvarlo, l'ho trovato per una seconda volta in ospedale a distanza di anni. Era il 2004 ed era rimasto coinvolto in un incidente stradale. Era arrivato al pronto soccorso e mi chiamarono per gestire l'emergenza. Purtroppo quella volta non riuscì a sopravvivere. Un caso davvero eccezionale come le nostre vite si siano incrociate in due momenti così particolari della sua esistenza. 

Dopo quell'incidente non ha avuto paura a risalire sull'elicottero?

Il fatto era accaduto di domenica e il mercoledì ero già operativo. Ho sempre avuto troppa passione per il volo. È bello lavorare in reparto, ho conosciuto persone stupende, ma il lavoro sull'elicottero ti dà qualcosa in più. La qualità del nostro operato, poi, viene data dal fatto che siamo dipendenti ospedalieri e che quindi spesso recuperiamo un paziente e poi lo seguiamo anche in reparto. Questa è la forza del nostro elisoccorso e spero in futuro rimanga tale.

È voce ricorrente che dopo il pensionamento del primario del 118 Zini l'unità operativa possa essere conglobata nel Pronto soccorso e quindi tutto andrebbe sotto la direzione del dottor Ramponi. Dall'alto della sua esperienza cosa pensa di questa soluzione?

Sarebbe un errore madornale accorpare. Stimo Ramponi, ma il 118 deve rimanere svincolato e dovrebbe essere guidato da un rianimatore, come è indicato anche in una legge provinciale. L'ideale sarebbe che a guidarlo arrivasse un giovane con tanto entusiasmo e che investisse professionalmente sul 118, perché quello che si troverà da fare è un lavoro enorme. Questa è naturamente la mia opinione personale. 

E il volo notturno?

Chiaro che serve, anche la scorsa notte siamo stati chiamati tre volte ed è questa la la media. Certo, a volte veniamo chiamati per cose che sarebbero gestibili in altro modo, e soprattutto mancano a volte i supporti a terra. Perché noi possiamo anche avvicinarci al ferito ma se non c'è l'ambulanza che ci porta o lo porta è un problema. 

Nella sua carriera avrà salvato centinaia di vite. C'è un episodio che ricorda in particolare?

Gli episodi in cui il nostro intervento fa la differenza sono numerosi. Di recente, ad esempio, siamo intervenuti per una caduta in montagna di un sacerdote in una zona al confine con Vicenza. Era un intervento difficile, in un ambiente ostile, ma eravamo tanti soccorritori e siamo riusciti a recuperare una situazione che era data per persa. Abbiamo trattato il paziente in modo intensivo e quella persona è tornata a fare il sacerdote. Bastavano pochi minuti di ritardo e le cose sarebbero andate diversamente.

E la situazione più difficile da gestire?

La parte operativa dà sempre tante soddisfazioni, finché intervieni sei concentrato a fare il tuo lavoro, a operare. È la gestione del lutto la parte più difficile. Dover comunicare a una mamma, a un papà, a un marito o una moglie che non c'è niente da fare. Ho lavorato tanto su questo aspetto, su come comunicare, ma non si impara mai abbastanza e per me rimane sempre lo scoglio più difficile da superare. Quando chiamano su un evento, anche se tragico, riesco a mantenere la calma e vado avanti fino alla fine quando vedo che c'è speranza. Ma se capisco che la situazione è destinata a non andare a buon fine allora mi occupo della parte più difficile; parlare coi parenti, prepararli a quanto sta accadendo.

I recenti numeri pubblicati sugli arresti cardiaci nella nostra Provincia hanno messo in evidenza il fatto che alla fine le persone che si salvano e che escono senza conseguenze dall'ospedale sono una minima parte. Un dato non incoraggiante.

Ora la tendenza mondiale è mettere il defibrillatore ovunque. Quando noi arriviamo sul posto tentiamo sempre di rianimare, ma ci sono momenti e situazioni in cui sarebbe meglio non farlo per le conseguenze per il paziente. Manca una legge sul fine vita.

Qual è il nome di un collega o di qualcuno che ha segnato la sua carriera in questi anni?

Nel mondo sanitario ci sono tanti nomi, ma una persona a cui ho voluto bene è sicuramente Oskar Piazza che per me è stato un maestro come io, credo, di esserlo stato con lui. È stato una pietra miliare dell'elisoccorso sia dal punto di vista umano che tecnico. Se oggi salgo sull'elicottero fidandomi ciecamente dei suoi ragazzi è anche grazie a lui e ai suoi consigli.

Dal primo elicottero, il Lama, con la barella realizzata dai saldatori su misura, all'Agusta con il superequpaggio. L'elisoccorso è cambiato molto negli anni. 

All'inizio eravamo io, il tecnico e il pilota. Un grande passo avanti è stato poi inserire l'infermiere nell'equipe. Questo ha permesso di dimezzare i tempi dell'assistenza del 50%. Poi naturalmente l'introduzione del soccorritore alpino che ci permette di intervenire in ambienti a noi non favorevoli. Io li ho sempre chiamati la nostra assicurazione sulla vita. E naturalmente in questo momento non posso non ringraziare anche i piloti che ogni sera mi hanno riportato a casa e i motoristi che mi hanno sempre fatto volare su mezzi perfettamente revisionati.

Qualcuno dei suoi figli porterà avanti questa passione per il soccorso, per la medicina?

No, questo amore nasce e finisce con me. Ho due figlie che hanno scelto un'altra strada. Anch'io non sono stato figlio d'arte. Mia nonna mi voleva o prete o medico: ho optato per questa seconda possibilità e alla fine credo di aver fatto bene.

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