Zivignago, la madre morente al figlio: «Ti voglio bene»

Omicidio di Zivignago, nelle motivazioni della sentenza di condanna a carico di Quarta, il giudice riferisce un dettaglio da brividi: è l'ultimo, disperato colloquio tra la madre morente e il figlio di 7 anni

di Sergio Damiani

Un delitto «atroce» che ha causato ai figli un danno «immenso». Eppure qualsiasi aggettivo sembra inadeguato di fronte alla mattanza: un uomo - Marco Quarta - che massacra a coltellate la moglie - la povera Carmela Morlino - davanti ai figli. Un delitto, quello di Zivignago, che colpisce sempre per l'alto tasso di orrore, superato solo dall'estrema umanità delle vittime.

Nelle motivazioni della sentenza di condanna a carico di Quarta, il giudice Carlo Ancona riferisce un dettaglio da brividi: è l'ultimo, disperato colloquio tra la madre morente, colpita da oltre 20 coltellate, e il figlio di 7 anni. Quest'ultimo, testimone oculare di quell'inferno di violenza, trova la forza per un gesto d'amore: «Volevo dirti che ti voglio bene...», dice alla madre che risponde prima di morire «anch'io ti voglio bene...».

È un dettaglio che più d'ogni altro dà la dimensione del dramma che si consumò quella sera a Zivignago. Un delitto "spiegato" in oltre 30 pagine di motivazioni dal giudice Carlo Ancona che ha affrontato una delle sentenze più complesse della sua lunga carriera di giudice penale. Ecco - necessariamente in estrema sintesi - come il magistrato ha sciolto i tre "nodi" del processo: la sussistenza delle aggravanti (crudeltà e premeditazione) e il tema della capacità di intendere e (soprattutto) di volere messo in campo dal difensore Luca Pontalti attraverso una approfondita consulenza psichiatrica.
La crudeltà. 
Secondo il giudice Quarta uccise con un coltello militare (non avrebbe utilizzato dunque la roncola) per «condurre in porto l'atroce demolizione della vittima». Il giudice sottolinea come vennero inferte dall'assassino numerose ferite sfregianti e «molte coltellate (soprattutto quelle al viso) appaiono rivolte più che ad uccidere a generare sofferenza». È in questo passaggio che si ricorda il breve colloquio tra madre e figlio, con la donna morente e il marito e padre assassino già in fuga. L'aggravante si configura perché l'imputato causò nelle vittime inutili sofferenze, fisiche ma anche psicologiche.
La premeditazione.
In sentenza il giudice elenca analiticamente tutti gli indizi che confermano come Quarta avesse raggiunto Zivignago con la precisa volontà di uccidere Carmela Morlino e non solo con l'intento di spaventare e fuggire insieme ai bambini. L'imputato aveva verificato prima l'orario in cui in genere la moglie rientrava a casa; quel giorno si era appostato come se preparasse un agguato; aveva il coltello militare acquistato poco tempo prima; aveva preparato la fuga facendo il pieno di benzina e prelevando denaro al bancomat; non fece neppure il tentativo di fuggire con i figli.

Inoltre, «la condotta fu protratta ed insistita a lungo, come appare evidente anche solo alla vista dello strazio consumato sul corpo della vittima dai venti colpi di coltello: essa ebbe una durata di alcuni minuti; e comunque, la aggressione venne consumata fin dall'inizio con estrema decisione e violenza, sintomo sicuro della determinazione con cui l'evento veniva ricercato; l'autore impiegò una energia da tempo covata e compressa, allo stesso modo in cui crolla una frana che, una volta che la forza di gravità ha vinto quella di attrito, tutto travolge...».. Inoltre «mentre colpiva la donna, l'imputato la accusava di avergli rovinata la vita, di essere unica responsabile di tutti i suoi mali; e nulla invece diceva del suo preteso diritto di vedere i figli e del suo desiderio di portarli via».

La malattia mentale.
La difesa, sulla base della consulenza dello psichiatra Ezio Bincoletto, sosteneva che la capacità di volere di Quarta, a causa di un quadro mentale patologico, fosse compromessa. Capire se la malattia - che pure il giudice Ancona dà per acquisita - abbia inconsciamente o meno armato la mano dell'imputato era il vero tema del processo a cui, infatti, vengono dedicate molte pagine della sentenza. «L'imputato - conclude Ancona - non appare affatto un semplice esecutore meccanico di un volere determinato dalla propria patologia; la realizzazione della condotta, con la preparazione quasi rituale dell'arma di offesa, la lunga prudente e paziente attesa, la precisione con cui i colpi vennero inflitti, ed infine la lucidità dell'allontanamento e la durata della fuga, depongono nel senso che se vi fu davvero follia, allora essa fu anche molto razionale e lucida, oltre che ragionevole e ragionata nella individuazione dell'obiettivo da distruggere nella sua stessa consistenza fisica, oltre che da sopprimere». 

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