Guglielmo Dalvit e le immagini dell'orrore: «Scene di guerra»

Ormai sono diventati francesi: Valentina Dalvit e suo fratello Guglielmo Dalvit, vivono a Parigi rispettivamente da 11 e da 3 anni. La loro drammatica testimonianza

di Matteo Lunelli

Ormai sono diventati parigini: Valentina Dalvit e suo fratello Guglielmo Dalvit, vivono nella Ville Lumière rispettivamente da 11 e da 3 anni. Potremmo, e ci piacerebbe, raccontare le loro storie, la loro vita, le loro esperienze e i loro sogni. Invece la prima notizia che dobbiamo riportare è che sono vivi e stanno bene. 

Valentina, 35 anni, il liceo al Prati e poi la laurea a Bologna in Scienze politiche, sposata e con due splendide bambine, racconta. «Mio marito è venuto a svegliarmi dicendomi che degli attentati erano in corso in città. Ci siamo seduti davanti alla tv, increduli e sbigottiti: le immagini erano irreali, vedevo strade e locali che conosco perfettamente, che frequento, che tutti i giovani di Parigi frequentano. Io lavoro a 400 metri dallo Stade de France. E mio fratello vive vicino al Bataclan. L'ho sentito subito, ed era in salvo».

Guglielmo, 29 anni, maturità al Prati, poi architettura a Venezia e infine l'accademia di belle arti (NABA) a Milano, ha vissuto una notte ancora più drammatica. «Venerdì sera sono andato al cinema all'Opera a vedere James Bond con due amici. Finita la proiezione abbiamo deciso di tornare a casa a piedi. Ce la siamo presa comoda e ci siamo fermati a fare delle foto. E, con il senno di poi, per fortuna! Arrivati a Place de la Republique abbiamo visto passare decine di furgoni di polizia e pompieri a sirene spiegate. Cento metri più avanti abbiamo trovato la strada sbarrata: polizia e pompieri correvano dappertutto e sembravano anche loro nel panico. Poi ho visto che trascinavano dei corpi, alcuni svestiti, per le gambe e le braccia. Alcuni erano senza vestiti, c'era sangue, c'erano morti e feriti. A quel punto la polizia ci ha urlato di cercare riparo. Abbiamo fatto un giro molto largo per arrivare a casa, c'erano sbarramenti ovunque e a ogni angolo la polizia con le armi in mano ci diceva "Mettez-vous à l'abri". Urlavano "Mettez-vous à l'abri". Scene da guerra. Finalmente siamo arrivata a casa e su internet abbiamo capito cosa stesse accadendo».

Il giorno dopo, ieri, è stato per entrambi piuttosto strano, con tanti sentimenti a sovrapporsi. «Questa mattina (ieri ndr) non siamo usciti, la Prefettura ha chiesto alla popolazione di restare a casa. Ma nel pomeriggio avrò bisogno di confrontarmi col mondo esterno e credo uscirò di casa, senza le bimbe. Forse è anche un atto di sfida, ne sento il bisogno», dice Valentina. Guglielmo è rimasto in casa. Una casa che è diventata un punto di riferimento per altri amici: «In molti mi hanno chiesto di poter venire nel mio appartamento per stare insieme: da soli è tutto più difficile. Anche la notte tra venerdì e sabato molti ragazzi si sono organizzati per dormire insieme, talmente la paura li ha resi vulnerabili. Per ora non esco di casa. Questa sera (ieri ndr) sarei dovuto andare al Maxim's per un evento, ma è stato annullato per lutto. E comunque non ci sarei andato».

Non ce le saremmo augurate, ma forse ce le saremmo immaginate. Parliamo di parole di rabbia e di odio quando chiediamo loro una spiegazione, un'analisi, un perché di quanto accaduto. Pur sentendo i due fratelli in momenti diversi, notiamo che le lo opinioni coincidono. Valentina: «Quando si decide di vivere in una metropoli, razionalmente bisogna accettarne i rischi. La mia vita quotidiana era già cambiata quando c'era stato l'attacco alla redazione di Charlie Hebdo: al nido l'accesso era concesso solo ai genitori, niente nonni, parenti o babysitter, alla materna tutte le gite erano state soppresse, in metropolitana sul mio tragitto per il lavoro le barriere erano aperte per permettere l'evacuazione più facilmente. Ma questa situazione era tornata alla normalità dopo qualche settimana. Fino a ieri. Ora, pur confusa tra mille sentimenti, pur con il cellulare sempre in mano, mi aggrappo alla razionalità per sconfiggere la paura, quella di una mamma e quella di una moglie di un conduttore della metropolitana, il bersaglio numero uno per gli attentati. Penso che generalizzare e usare stereotipi sia pericoloso in una metropoli multiculturale e multietnica. Razzismo e xenofobia non sono la soluzione. Vorrebbe dire smettere di vivere. O andarsene. Per quanto mi riguarda scelgo la quotidianità e la voglia di vivere. Come hanno detto in tanti, credo anche io che un'ora di attentati a Parigi faccia capire perché le persone siano disposte a imbarcarsi su un barcone per scappare da scene per loro quotidiane».

«La paura c'è - ammette anche Guglielmo -. Confesso che una volta, dopo Charlie Hebdo, sono sceso alla metropolitana perché non mi sentivo sicuro accanto a un gruppo di uomini che era salito a bordo con dei bagagli con forme sospette. Si diventa anche paranoici. La Francia è un Paese multietnico, nel mio quartiere ci sono più arabi e africani che caucasici. Gli attentatori, a quanto pare, erano francesi, parlavano francese, vivevano da sempre in Francia. Fare dei controlli diventa difficile. Gli estremismi e i fanatismi, ovviamente, sono un cancro. Ma la risposta contro un cancro non è certo incazzarsi e odiare e vendicarsi. Bisogna capire perché viene un cancro ed estirparlo».

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