Un modello matematico trentino per combattere ebola

di Patrizia Todesco

È stato pubblicato oggi on-line sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet Infectious Diseases, un lavoro realizzato dal gruppo di matematici della Fondazione Kessler di Trento, costituito da Stefano Merler, Marco Ajelli e Laura Fumanelli, insieme ad altri ricercatori di alcune università americane, che riporta i risultati dell’elaborazione di un modello computazionale che analizza dove e perché si è propagata così rapidamente tra il giugno e la fine del 2014 l’epidemia di ebola in Liberia e quali sono stati gli effetti delle misure di prevenzione e cura che sono state adottate per cercare di contrastare la diffusione del virus dalla metà di agosto in poi.

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Questo utile modello matematico sulla proiezione della dinamica dell’epidemia, l’unico fino ad ora realizzato in modo così preciso, partendo dai dati reali sul numero dei casi e la mappa del contagio in Liberia (uno dei Paesi più colpiti dal virus assieme alla Sierra Leone e la Guinea), sarà ora utilizzato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms -Who) come strumento per valutare gli effetti della campagna di vaccinazioni contro l’ebola, che dovrebbe essere avviata già a fine gennaio o agli inizi di febbraio in questa parte dell’Africa Occidentale.

«Il primo dato che emerge dal nostro modello - spiega Stefano Merler, che ha guidato il gruppo di ricerca della Fbk, - è che diamo una spiegazione plausibile della diffusione spaziale dell’epidemia avvenuta molto rapidamente, nonostante non si tratti di un virus particolarmente contagioso, anzi, è molto lento se si pensa che il virus dell’influenza ha un tempo di due giorni per fare un nuovo contagio mentre ebola 18 giorni. Questa malattia infatti è un po’ strana perché prima dei sintomi non si è contagiosi e quando si hanno i sintomi si sta così male che non è che si va in giro e si trasmette il contagio. Noi abbiamo dimostrato che questo è avvenuto essenzialmente a causa degli ospedali».

«Prima del 15 agosto - prosegue Merler - in Liberia non c’erano ospedali specifici per curare l’ebola ma solo ospedali non attrezzati dove la quarantena non era certo adeguata e dunque l’incontro di pazienti infetti con gli altri ha aumentato tantissimo i contagi. Negli ospedali c’è stato un centinaio di morti fino al 15 agosto solo tra i medici e gli infermieri. Noi abbiamo fatto un modello matematico di diffusione spazio-temporale dell’epidemia rappresentando ogni singola famiglia della Liberia con i membri e la distribuzione della popolazione sul territorio, abbiamo simulato gli ospedali mettendoli dove sono, con la capacità di mezzi e personale che hanno, e su questa struttura socio-demografica abbiamo calcolato la probabilità con cui le persone si incontrano e trasmettono l’infezione e i vari stadi della malattia nei diversi contesti sociali: in famiglia, negli ospedali e nei funerali».

Il modello ha stimato infatti dove la gente si infetta, dato fondamentale per poter intervenire. Emerge che fino al 15 agosto - data che segna la volta perché da allora sono state messe in campo delle misure - il 38% circa delle persone si è infettata in ospedale, il 31% in famiglia e quasi il 9% ai funerali e il resto nei contatti tra parenti stretti visto che non c’è molta trasmissione casuale. Dopo il 15 agosto le stime cambiano drasticamente con la comparsa dei centri di trattamento dell’ebola, ovvero ospedali specializzati che ha consentito di isolare i malati di ebola separandoli dagli altri, poi si è cominciato a fare «funerali sicuri», ovvero si è insegnato alla popolazione a fare i funerali senza i riti che favorivano l’infezione e infine distribuendo kit di protezione alle famiglie (guanti, sapone e altro). Tutto questo ha fatto in modo di ridurre drasticamente la diffusione della malattia negli ospedali che è scesa dal 38 al 15%. Il terzo risultato del modello riguarda le stime degli effetti delle misure messe in campo. Si stima che se non si fosse fatto nulla ci sarebbero stati circa 36 mila casi di contagio in Liberia a fine dicembre 2014.

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Le strutture sanitarie dedicate hanno permesso di dimezzare i casi evitandone circa 15 mila, assieme ai funerali sicuri le hanno ridotte di 24 mila, con i kit di prevenzione ha permesso di evitare complessivamente circa 30.500 casi, restano 6-7000 casi che sono i casi che si sono effettivamente verificati.

 

IL TEAM
L’équipe della Fondazione Kessler di Trento, che ha svolto la ricerca sulla diffusione di ebola, è guidata da Stefano Merler, matematico trentino esperto di modelli predittivi per la medicina che da circa 10 anni si occupa di studiare la diffusione delle epidemie. Con lui hanno lavorato Marco Ajelli e Laura Fumanelli.
Lo studio è stato realizzato insieme a ricercatori di vari centri di ricerca e laboratori di università americane. Tra questi ci sono Marcelo Gomez, Ana Pastore, Alessandro Vespignani della Northeastern University di Boston; D. L. e Elisabeth Halloran del Fred Hutchinson Cancer research center di Seattle; Ira Longini dell’Università della Florida.
E infine l’italiano Luca Rossi dell’Institute for Scientific Interchange di Torino.


LA SCHEDA
È stata superata la soglia degli 8mila decessi complessivi a causa del virus ebola. Lo confermano i dati resi noti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ed aggiornati al 5 gennaio.
Secondo le stime dell’Oms, sono ad oggi 8.153 i morti a causa della febbre virale da virusebola e i casi registrati sono in totale 20.656. Maggiormente colpiti restano Liberia, Guinea e Sierra Leone, in Africa occidentale. [[{"type":"media","view_mode":"media_preview","fid":"164981","attributes":{"alt":"","class":"media-image","height":"180","style":"float: right;","width":"180"}}]]
Per cercare di debellare la malattia sono ripresi lunedì presso l’ospedale universitario di Ginevra (Hug) i test del vaccino sperimentale Vsv-Zebov contro l’ebola che erano stati sospesi a metà dicembre a causa di infiammazioni articolari segnalate presso alcuni dei volontari a cui era stato somministrato il prodotto.
Fino alla fine di gennaio, 56 volontari riceveranno ancora il candidato-vaccino o un placebo al ritmo di 15 persone a settimana. Sarà somministrata una dose più leggera rispetto alla prima fase.
Dall’avvio della sperimentazione presso l’Hug il 10 novembre scorso all’annuncio della sua sospensione l’11 dicembre, 59 volontari avevano già partecipato al test. Le infiammazioni articolari osservate presso una decina di volontari erano lievi o moderate ed erano rapidamente diminuite o scomparse.
In questa nuova fase, la sperimentazione clinica del vaccino si svolgerà con una dose inferiore, pari a 300.000 «particelle vaccinali», che dovrebbe essere meglio tollerata. Si spera che possa indurre una produzione di anticorpi sufficiente, spiega l’ospedale. La modifica del protocollo di studio è stata approvata  dalle autorità competenti e dai comitati etici interessati, si precisa.
Gli esperti del nosocomio di Ginevra sono in costante contatto con gli altri centri coinvolti nello studio dello Vsv-Zebov in Germania, Canada, Stati Uniti e Gabon. I risultati finali sono previsti per marzo 2015, afferma il comunicato.
Un secondo vaccino sperimentale contro Ebola, il Gsk/Nih, è stato sperimentato in Svizzera alla fine dell’anno scorso. Il test è stato condotto dal Centro ospedaliero universitario vodese (Chuv) di Losanna presso 120 volontari.


L’INTERVISTA
Quattordici anni di vita con il camice da infermiera. Prima nel reparto di malattie infettive del S. Chiara, poi in carcere a gestire i problemi sanitari a Spini di Gardolo. Alcuni mesi fa la voglia di fare un’esperienza diversa, di mettersi in gioco e a disposizione con Emergency là dove c’era bisogno di personale sanitario per far fronte alle nuove emergenze. Certo non pensava alla Sierra Leone e all’ebola Catia Mattivi, 36 anni, di Trento, quando ha presentato domanda per partire per qualche  missione umanitaria. E invece la destinazione è stata proprio quella. Catia è partita, è ritornata in Trentino per qualche settimana, e ora da pochi giorni è ritornata in Sierra Leone nel centro attrezzato di Lakka, non distante dalla capitale. L’abbiamo contattata via Skype durante una pausa dal lavoro.

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Quando è partita la prima volta per l’Africa?
Il 27 settembre e sono rimasta fino al 4 dicembre. Mi avevano chiesto di rimanere sei mesi, ma l’Azienda sanitaria, inizialmente, mi aveva dato aspettativa solo per tre mesi, in pratica 9 settimane di lavoro e 3 di quarantena. Solo dopo, grazie ad un colloquio tra Gino Strada e l’assessora, hanno prorogato l’aspettativa e ora sono ancora qui.  
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Ma nel periodo in cui è tornata in Trentino come è stata controllata?
Ho effettuato l’automonitoraggio. Nonostante avessi lavorato a diretto contatto con i pazienti malati ho sempre usato tutte le precauzione previste dai protocolli e quindi il rischio che fossi stata contagiata era ridotto a zero. Era comunque previsto che io rimanessi a casa isolata per le prime settimane e controllassi due volte al giorno la febbre. Al minimo sintomo avrei dovuto avvertire.

È la prima missione con Emergency?
Sì, conoscevo Gino Strada, il suo lavoro e quando lavoravo in malattie infettive avevo una collega, Nadia, che alternava periodi di lavoro a periodi di vita all’estero con «Medici senza frontiere». Lei mi diceva: “Perché non parti anche tu?”. In realtà, per vari motivi, ho sempre rimandato. Un giorno, però,  sono entrata nel sito di Emergency e ho inviato la domanda. Mi hanno risposto e sono andata a fare il colloquio. Inizialmente mi hanno proposto missioni in Italia, con i nuovi poveri. Avrei dovuto partire in novembre. Invece poi il responsabile di Milano mi ha ricontattata proponendomi di anticipare e, soprattutto, di partire per la Sierra Leone perché c’era da far fronte all’emergenza Ebola.

E quanto è arrivata che situazione ha trovato?
All’inizio abbiamo contribuito a creare i protocolli e le procedure. Il centro di Lakka era aperto da 15 giorni. Aveva 22 posti, ma inizialmente mancava personale internazionale. Era comunque uno dei pochi centri dove venivano accolti pazienti con Ebola. Qui chi arrivava veniva sottoposto al test e se positivo si decideva che trattamento fare anche se le conoscenze non erano ancora molte.

Che percentuale di sopravvivenza c’era?
60% di mortalità e il 40% sopravviveva.

Mai avuto paura di essere contagiata?
Una volta che impari le procedure e a fare le cose con calma hai quasi la certezza di non essere contagiato. Chi ha avuto problemi non la racconta giusta. I mezzi di sicurezza forniti funzionano e la paura e l’ansia non aiutano.

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Quale è stato il sentimento predominante in questi mesi di lavoro in Sierra Leone?
Direi l’umanità, ma non quella che ho trasmesso io. Certamente il sentimento predominante non può essere la paura e nemmeno la sensazione di essere dei super eroi o coloro che vengano qui a salvare il mondo. Ripeto, è l’umanità della gente che lavora qui con me. È ovvio che ci siamo trovati di fronte ad una malattia terribile, da trattare più con le conoscenze della rianimazione che con quella delle malattie infettive. Eppure  ho visto dei giovani del posto che arrivavano dalla strada e non avevano studi medici, infermieristici o altro alle spalle muoversi in maniera esemplare. Si sono presi cura dei malati e hanno fatto l’impossibile.

Che compito avete nel centro di Lakka dove è lei?
Ora che l’emergenza si è attenuata le cose sono cambiate. Inizialmente Emergency aveva allestito all’interno del Centro chirurgico della capitale delle tende per l’isolamento dei casi sospetti. Poi, su richiesta del governo sierraleonese, a settembre 2014, è stato aperto il centro dove lavoro io. È stato il primo Centro di cura per i malati di Ebola con 22 posti letto a Lakka, vicino alla capitale.  L’impegno di Emergency è proseguito con l’apertura a dicembre del Posto di primo soccorso a Waterloo e del Centro di cura da 100 posti letto a Goderich, una struttura dall’elevato standard di attrezzature e assistenza. Con l’apertura di quest’ultimo ospedale, il Centro di Lakka è stato convertito in Ebola Holding Centre, un Centro di isolamento dei casi sospetti che se positivi vengono trasferiti al nuovo Centro di Goderich.

Ora per quanto rimarrà ancora in Sierra Leone?
Altri tre mesi. Sono ripartita il 27 dicembre, sono in aspettativa per quattro mesi, 11 settimane di lavoro e le altre di riposo.  Ora però la situazione è migliorata. Ovvio che non bisogna abbassare la guardia. Proprio oggi (ieri per chi legge, ndr) è arrivato un nuovo caso.

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Voi operatori siete costantemente controllati anche lì, avete particolari restrizioni?
Ogni volta che si arriva a casa bisogna procedere al lavaggio delle mani con clorina diluita e poi all’ingresso ci sono guardiani che misurano febbre. Lo stesso quando si entra negli ospedali o nei vari villaggi. Attualmente siamo in momentaneo isolamento, non possiamo frequentare spiagge, celebrazioni religiose, non possiamo organizzare feste. In pratica man mano che in una zona finisce l’epidemia si insedia l’esercito perché non ci sia movimento migratorio e dunque possibili contagi.

In tutti questi mesi di permanenza c’è una storia che l’ha particolarmente colpita?
Ce ne sono almeno tre. Innanzitutto quella di due fratelli. La loro mamma era morta. Purtroppo in questi posti spesso i malati vengono gestiti dalle varie tribù con i loro riti. Quando il padre ha visto che la moglie non ce l’aveva fatta e anche lui e i bambini iniziavano a sentirsi male si è rivolto al nostro centro. Lionel e Christian, questo il nome dei due fratellini di 8 e 10 anni, hanno iniziato a migliorare giorno dopo giorno, hanno presto riacquistato l’appetito, il sorriso e persino la voglia di disegnare. Dopo due settimane prima la sorellina e poi il fratellino sono usciti guariti dal centro. Purtroppo il loro papà non ce l’ha fatta. Poi c’è la storia di Unisa, un ragazzo di 23 anni che lavora con noi. Lo zio, lavoratore ambulante vagante tra varie provincie, ha portato inconsapevolmente Ebola nella sua comune, infettando così moglie, figli e cugini. Molte persone sono morte nel giro di pochi giorni. Tra queste i genitori di Unisa. Lui, invece, si è fatto ricoverare al centro dove lavorava e ci ha messo una grandissima forza di volontà per sopravvivere. Il suo segreto? Beveva una quantità industriale di acqua, pregava molto, anche a voce alta e, appena poteva, aiutava gli altri pazienti. Unisa oggi lavora ancora con noi a Lakka e ora  stiamo assieme da questa parte della rete. Infine un’altra storia, quella di Momoh, un bambino di 10 anni che è stato portato dall’ambulanza con la madre in gravissime condizioni. Non siamo riusciti nemmeno a metterla in un letto che lei è morta ancora nell’area di triage.  Momoh è arrivato disidratato, con la diarrea, il vomito e la febbre alta. Continuava a piange e chiamare la madre. Era uno strazio sentirlo da fuori e non poter fare entrare nessuno della sua famiglia per stargli vicino. Dopo una settimana di flebo, antibiotici, antipiretici il suo fisico ha cominciato a reagire ma è stato un problema farlo iniziare a mangiare. Continuava a piangere fino a quando, con un panino dolce, qualche banana, e i succhi ha ricominciato con fatica ad alimentarsi. Dopo 10 giorni è stato trasferito nella tenda dei convalescenti dove è stato coccolato anche da noi che abbiamo continuato a imboccarlo anche se avrebbe potuto mangiare da solo. Dopo un po’ non ha chiamato più la mamma, e anche se ancora molto debole ha iniziato a reggersi in piedi. Insomma ce l’ha fatta, ha sconfitto la malattia ed è uscito tra gli applausi di tutti ad abbracciare lo zio e la sua nuova famiglia.

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