La gioia di Gabriele Maroni in vetta al McKinley

Non è nuovo Gabriele Maroni - operaio di 57 anni di Prè - alle imprese estreme, ma questa volta ha superato sé stesso. Dell'estate scorsa la spedizione più difficile, quella in Alaska, sul McKinley che, con i suoi 6.194 metri, è il monte più alto del Nord America. E tra quelli con l'indice di mortalità più elevato. Grande la passione per la montagna che ha spinto il ledrense ad affrontare la sfida. Compiuta con successo. Tre i compagni d'avventura - Daniele Archetti della Val Camonica, il bergamasco Giacomo Balada e Valerio Mondini di Ponte di Legno - che assieme a Maroni hanno voluto cimentarsi nell'impresa PAOLA MALCOTTI

montagna impresaNon è nuovo Gabriele Maroni - operaio di 57 anni di Prè - alle imprese estreme, ma questa volta ha superato sé stesso. Dell'estate scorsa la spedizione più difficile, quella in Alaska, sul McKinley che, con i suoi 6.194 metri, è il monte più alto del Nord America. E tra quelli con l'indice di mortalità più elevato. Grande la passione per la montagna che ha spinto il ledrense ad affrontare la sfida. Compiuta con successo. Tre i compagni d'avventura - Daniele Archetti della Val Camonica, il bergamasco Giacomo Balada e Valerio Mondini di Ponte di Legno - che assieme a Maroni hanno voluto cimentarsi nell'impresa.

Venti i giorni di viaggio, dei quali otto dedicati all'ascesa di uno delle "Seven Summits" della Terra. Limitate al 50% le possibilità di successo: oltre 1.500 persone ambiscono infatti ogni anno alla vetta ma solo la metà vi arriva. «L'itinerario si svolge in un ambiente severo ed isolato - spiega il ledrense - con condizioni atmosferiche rapidamente mutevoli, dove il freddo si associa a bufere e a forti raffiche di vento che, con temperature di -40°C, possono durare anche per settimane: l'impresa spesso può diventare impossibile. Noi siamo stati fortunati perché abbiamo trovato poco vento ed affrontato la scalata con condizioni meteo ottimali. Alta l'escursione termica: di giorno, con il sole, le temperature erano vicine allo zero. Durante la notte la colonnina di mercurio segnava -33°». Cinque le soste ai campi durante la salita, affrontata mettendo in conto il "fattore fatica" fin dalla partenza: «A differenza dell'Himalaya - continua Maroni - sul McKinley non si può contare sull'aiuto di yak o sherpa.

Servono doti di autosufficienza ed un buon allenamento psicofisico per portare 200 kg di materiali, attrezzature e cibo in zaini e slitte. Il briefing con i rangers alla partenza è obbligatorio ed eloquente; i concetti, le raccomandazioni e soprattutto certe immagini sono chiarissimi: non si scherza. Con un piccolo velivolo siamo atterrati su una lingua laterale di solo ghiaccio. L'impatto è stato traumatico ed i ghiacciai circostanti impressionanti: duemila metri di seracchi di dimensioni mai viste. Nei campi c'erano alpinisti provenienti da tutto il mondo, fermi per riposare e climatizzarsi; tra loro anche Diego Giovannini della valle di Non che, con altri quattro trentini, aveva in programma la salita della via Cassin». Ma cosa vi ha spinto a tanto? «La voglia di testare i propri limiti, di vedere fin dove organismo e testa riescono ad arrivare. Il successo di una spedizione dipende molto anche dalla determinazione e dalla passione. La vetta mi attrae, carica e rigenera. E' difficile da spiegare».

E una volta in vetta? A Gabriele mancano quasi le parole tanta è l'emozione che il ricordo della conquista della cima suscita. «La temperatura era bassa ma il panorama incantevole. Sotto, quasi 4.000 metri di strapiombo; il campo un puntino lontano, perso nell'immenso ghiacciaio. Lo sguardo spazia a 360°: dall'Oceano Pacifico a tutto il massiccio alaskano, allo Stretto di Bering fino al Canada. Abbiamo pianto come bambini e ci siamo abbracciati: è stata un'emozione forte esser lassù! Mi sono reso conto che oltre ad aver conquistato una grande montagna ho trovato anche tre grandi amici e, grazie a loro ed ai miei tanti sostenitori in valle di Ledro, ho potuto realizzare un sogno. La passione e la voglia di affrontare quest'impresa ci ha uniti fin da principio. E' nella condivisione della fatica, del sogno, dell'aspettativa che nascono le amicizie più belle, sincere e vere». Altre spedizioni in programma? «Prima di proiettare lo sguardo su nuovi obietti - conclude Maroni - mi godo questa bellissima esperienza. Forse le "Seven Summits" sono un progetto troppo ambizioso, ma la voglia di andare c'è sempre e finché la salute lo permette, si va».

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