I poveri ci dicono che non esisto solo io

I poveri ci dicono che non esisto solo io

di Giancarlo Bregantini

Mi viene difficile pensare ad una società dal cuore nuovo, se continuiamo a togliere la parola a chi soffre e il pane a chi è povero. Possiamo illuderci finché vogliamo, ma se non trasformiamo il nostro cuore, tutto rischia di rimanere come un miraggio lontano dalla realtà.
Oggi è una domenica speciale, perché ricorre la Giornata mondiale dei poveri, voluta proprio da Papa Francesco. Si dice spesso, soprattutto nell’ambiente cristiano, che incontrare il povero è incontrare Dio stesso. Ma cosa significa? Una cosa sola. Non è pietismo facile, ma chiarezza di scelte, perché Dio sceglie ciò che è piccolo per le sue reali dimensioni grandi. Sceglie ciò che per il mondo è scarto come sua primizia. E si mette d’impegno a confondere i potenti del mondo! Il povero è sempre sua predilezione. In esso si ritrova. In esso si trasfigura. In esso si rivela. Mendicante. Silente e tutto sguardo.
Presente in ogni angolo della terra.

Ma perché fa così? Dio è nel povero per ricordarci che non esisto solo io, con i miei interessi! E che se vivo solo per me, fabbrico soltanto inferni di povertà. Quella povertà che, nel suo messaggio, il Papa dice avere davanti: «Il volto di donne, di uomini e di bambini sfruttati per vili interessi, calpestati dalle logiche perverse del potere e del denaro. Quale elenco impietoso e mai completo si è costretti a comporre dinanzi alla povertà frutto dell’ingiustizia sociale, della miseria morale, dell’avidità di pochi e dell’indifferenza generalizzata!».

Ma esistono infatti due tipi di povertà. Quella imposta, triste, subita, prodotta dall’indifferenza di chi nella vita non si accontenta di avere soltanto il giusto necessario. Ma c’è un altro tipo di povertà, aurea, perché a testa alta, capace di vivere con speranza nell’essenzialità. Quella che semplicemente tiene vivo l’amore del prossimo, che non dimentica l’altro, che si cura dell’altro come se fosse parte di sé.

Quest’ultima non è l’effetto di una pozione magica, ma è unicamente la scelta integrale di non venire meno alla propria coscienza, alla responsabilità sociale, ossia al valore di fratellanza. Ecco, è tutta qui: povero è colui che ha come ricchezza l’amore per gli altri e ne resta fiero! Non corre per arrivare primo, strattonando chiunque gli capiti davanti e nemmeno avanza dimenticando chi non riesce a camminare.
Cammina accanto! Si fa accanto! Esprime cioè comunione, non rivalità, non presunzione. Riconosce che l’altro è prezioso quanto se stesso e non lo sopprime, non lo umilia, non lo deruba.

La povertà del cuore è quella che veicola nella storia la parola «noi». La incarna. La testimonia. La difende. In un atteggiamento di reciprocità che fa sempre da balsamo nelle relazioni, nel cammino a due. Proprio come i binari sui quali viaggia il treno della vita, che misteriosamente li trasforma in una cosa sola mentre corre su di loro.
Mai chiudere la porta in faccia al povero. È come dire a quel treno di muoversi su un binario solo. Col rischio che precipiti alla prima curva, tutto  sbilanciato verso un lato.

Ma questa giornata ci pone anche precise domande sulle cause complesse ma reali della povertà. Dobbiamo cioè guardare ai poveri come a foglie che il vento dell’egoismo ha strappato via dalla propria pace, dalle proprie dimore.

Perché dietro un povero che piange, c’è sempre un ricco che imbroglia e ride indolente. Il termine, esatto, è perciò quello di «impoveriti». La parola «povero» è limitante. Nessuno infatti può conoscere fino in fondo cosa o chi li ha portati alla povertà. Per questo rispettarli è già amarli e non escluderli da nuove possibilità di riscatto. Con empatia.

Un po’ come la storiella che racconto spesso ai miei ragazzi, visitandoli nelle scuole: «Un uomo aveva quattro figli. Egli desiderava che i suoi figli imparassero a non giudicare le cose in fretta, per questo, invitò ognuno di loro a fare un viaggio, per osservare un albero, che era piantato in un luogo lontano. Il primo figlio andò là in Inverno, il secondo in Primavera, il terzo in Estate, e il quarto, in Autunno.

Quando l’ultimo rientrò, li riunì, e chiese loro di descrivere quello che avevano visto. Il primo figlio disse che l’albero era brutto, torto e piegato. Il secondo figlio disse invece che l’albero era ricoperto di gemme verdi e promesse di vita. Il terzo figlio era in disaccordo; disse che era coperto di fiori, che avevano un profumo tanto dolce, ed erano tanto belli da fargli dire che fossero la cosa più bella che avesse mai visto. L’ultimo figlio era in disaccordo con tutti gli altri; disse che l’albero era carico di frutta, vita e promesse.

L’uomo allora spiegò ai suoi figli che tutte le risposte erano esatte poiché ognuno aveva visto solo una stagione della vita dell’albero.
Egli disse che non si può giudicare un albero, o una persona, per una sola stagione, e che la loro essenza, il piacere, l’allegria e l’amore che vengono da quella vita può essere misurato solo alla fine, quando tutte le stagioni sono complete».
Dove c’è l’inverno della disperazione, portiamo il calore estivo della carità.

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