L'Italia, l'Europa e la palude libica

L'Italia, l'Europa e la palude libica

di Gianni Bonvicini

Un’Italia sempre più sola. Affrontare le masse di migranti in arrivo dalle coste africane; mettere un po’ d’ordine nel generoso ma spesso caotico aiuto umanitario delle Ong; decidere un intervento militare indiretto nelle acque territoriali libiche; barcamenarsi politicamente fra il debole governo di Serraj a Tripoli e l’aggressiva forza bellica del generale Haftar.

Sono tutte azioni che qualsiasi governo avrebbe difficoltà ad affrontare nello stesso momento. Il tutto deciso nella quasi totale assenza dell’Europa o addirittura contro le mosse azzardate di altri paesi, a cominciare dalla Francia di Macron che pretende di ergersi a mediatore solitario fra Serraj e Haftar, mettendoci ancora di più in imbarazzo. A spingere il governo italiano ad assumersi non pochi rischi nell’affrontare il grande Risiko libico è il timore, se non la disperazione, di vedere sfuggire di mano la situazione, con gravi conseguenze non solo sul piano della sicurezza internazionale, ma anche e soprattutto sul quadro politico interno.

Non vi è infatti alcun dubbio che, di fronte al caos libico, a trarne politicamente vantaggio saranno i partiti di destra, dichiaratamente nazionalisti e intolleranti, pronti a cavalcare le comprensibili preoccupazioni della nostra opinione pubblica. Basti vedere il sorriso trionfante di Salvini per rendersene conto. Con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale di primavera (se non prima), i timori di una radicale sterzata a destra sono più che mai fondati.

Il governo Gentiloni, ed in particolare il suo ministro degli interni Marco Minniti, ha quindi varato due misure di rottura rispetto al passato.
La prima, come è ben noto, è stata quella di imporre un codice di condotta alle Ong impegnate a salvare migranti in mare e a portarli nei nostri porti o sulle navi «ufficiali» italiane ed europee. La questione, fonte di innumerevoli polemiche, è stata sviscerata in lungo e in largo sulla stampa italiana e internazionale.

Noi aggiungiamo solo che le Ong hanno colmato un vuoto e cioè si sono spesso spinte all’interno delle acque territoriali libiche per adempiere al loro compito umanitario. Hanno, in altre parole, bypassato le due missioni navali europee, Triton e Sophia, nonché la nostra guardia costiera che agivano solo in acque internazionali.

Nel fare ciò, tuttavia, le Ong sono venute meno ad uno degli obiettivi delle missioni europee e cioè quello di catturare gli scafisti e affondare i loro navigli. Di qui il gran caos operativo e la necessità di imporre un codice di condotta.

Ma forse di gran lunga più importante e densa di controindicazioni è la seconda mossa di Minniti: accogliere la richiesta, non si sa quanto spontanea, del sempre più debole «premier» di Tripoli (quindi di una sola parte della Libia, anche se riconosciuta dall’Onu) Serraj di mandare qualche nave da guerra italiana davanti alle coste occidentali della Libia. Lo scopo è di aiutare la locale guardia costiera a combattere e possibilmente bloccare gli scafisti.

Va subito detto, a scanso di equivoci, che una decisione di tale importanza ha dovuto ottenere l’approvazione del Parlamento italiano sulla base della legge 145/2016. Autorizzazione raggiunta a larga maggioranza anche con i voti di qualche gruppo di opposizione, il che tuttavia non elimina alcuni dubbi sulla praticabilità di questa azione.

Il primo è il timore di violare il diritto umanitario internazionale, almeno indirettamente, attraverso i respingimenti che le vedette costiere libiche stanno già operando in questi giorni allo scopo di ribadire la loro supremazia sugli scafisti e le micro-milizie che li proteggono a terra.

Ma i respingimenti in mare non sono ammessi dalle regole internazionali. Il secondo problema riguarda i rapporti con il generale Haftar, nemico di Serraj, e che in questi ultimi tempi ha ottenuto numerose vittorie militari contro Tripoli. Oggi si calcola che Haftar domini sui due terzi della Libia ed è facile quindi intuire che non accetti iniziative che possano rafforzare la credibilità del rivale Serraj.

 Per parare questi rischi, Roma è costretta a muoversi in diverse direzioni.

La prima è quella di utilizzare il potere ancora intatto di un attore «nascosto», ma che gioca un ruolo di primo piano sul terreno: l’Eni. Nel grande caos libico pochi si sono accorti che l’unica cosa che non si è mai del tutto interrotta è il flusso di petrolio e gas attraverso le grandi pipeline. Siamo passati da 290mila barili al giorno nel periodo più buio della guerra civile (dati luglio 2016) ad oltre 1 milione di oggi.

La ragione è chiara: ad entrambi i contendenti i proventi del petrolio fanno un gran comodo. E l’Eni possiede una consistente parte degli impianti e delle tecnologie per tenerli in vita.

La seconda direzione, frutto delle dure contestazioni di questi giorni, è stata quella di attivare la nostra ambasciata al Cairo, malgrado gli strascichi del caso Reggeni. L’Egitto è infatti, assieme alla Russia, il grande sostenitore di Haftar e la sua influenza può moderare eventuali azioni anti-italiane del boss di Tobruk. Riprendere quindi i rapporti diplomatici è stato considerato un passo necessario.

È chiaro tuttavia che ci stiamo muovendo sul filo del rasoio, malgrado le massicce dosi di realpolitik, ispirate dal nostro ministro degli interni Minniti. Il suo sforzo rischia di essere fragile proprio alla luce della solitudine con cui il nostro governo è costretto a muoversi.

A latitare di più è l’Europa. Si pensi che la missione navale UE Sophia doveva fare esattamente, nella sua terza fase operativa, le stesse cose che oggi fa la nostra marina di fronte alle coste di Tripoli. Peccato che la terza fase non sia mai decollata. L’UE dovrebbe inoltre vegliare sulla lunga costa Sud della Libia (circa 3.000 km) per filtrare l’immigrazione africana: esiste infatti un’operazione Eubam Lybia. Peccato, anche in questo caso, che i componenti della missione si siano acquartierati in Tunisia, in attesa di tempi migliori sul piano della sicurezza in Libia. Ed infine l’UE dovrebbe varare un grande prestito per costruire e trasformare gli indecenti «campi di accoglienza» in Libia.

Alla Turchia per gestire sul proprio territorio l’immigrazione siriana sono stati concessi 6 miliardi di euro. Alla Libia 90 milioni. Dove sei Europa?

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