Le mie giornate dentro il frullatore

Le mie giornate dentro il frullatore

di Eliana Agata Marchese

È una costante crisi di identità. La lezione su Orazio e la canzoncina di Poldo Gnomo. Il periodo ipotetico in streaming e l’orecchio teso ai danni nelle altre stanze. L’ultima volta Luciano ha solo colorato una parete a pennarello, ma di solito l’elenco è molto più lungo.

Scomparso il tragitto tra casa e scuola, è sparito anche il confine dei ruoli. Dalla madre di famiglia ci si aspetta che segua i figli con dedizione esclusiva, come se non lavorasse. Contemporaneamente, l’insegnante in telelavoro (mannaggia. Sono sempre io) punterà al successo formativo come se intorno non ci fosse un’urlante prole dai bisogni più disparati, ma sempre terribilmente urgenti. Grazie a tutti per la fiducia, ma ogni tanto preferirei l’equilibrio mentale. Invece giro in una centrifuga, al momento senza luce in fondo al tunnel.

Non credo che i miei figli stiano vivendo chissà che esperienza di vita. Nelle prime settimane mi raccontavo che dalla clausura sarebbero usciti più forti. Ora sono solo preoccupata che non riportino lacune nell’apprendimento, eventualità che mi sembra pericolosamente vicina. E non sarebbe un effetto collaterale da poco. Mi oppongo allo tsunami con fiducia da Don Chisciotte: i mulini a vento non prevarranno. Verifico quotidianamente che Caterina e Silvia abbiano finito le attività del giorno. Mi ostino a controllare i loro quaderni e i calendari delle lezioni. Nel frattempo non mollo di un centimetro le mie quattro classi: registro video e audio, correggo i compiti sullo schermo. Mi capita, simulando scioltezza, di passare da un’ode di Orazio al massimo comune divisore, dalla consecutio temporum all’impollinazione, senza uscire dal frullatore nemmeno per un caffè (anzi: quando mi preparo un caffè di solito succede il peggio).

Ho studiato di nuovo la differenza fra stami e pistilli, questa volta con l’ebbrezza della terminologia in inglese. Ripeto e faccio ripetere le meraviglie dell’impollinazione, poi corro a riavviare il mio schermo: è quasi ora del collegamento su Foscolo. Finisco, lascio il computer in pausa (se lo spegnessi mi sentirei persa), pulisco tracce di pomodoro dal divano e corro a dedicarmi ai Babilonesi; io e Silvia abbiamo impiegato quasi un’ora per registrare un’esposizione di due minuti: c’era sempre qualche parola che sfuggiva, per non parlare delle fantasiose rielaborazioni del nome di Nabucodonosor. Ora il file è al sicuro su un’applicazione del telefonino, insieme alle mie letture dell’Eneide con tono professionale e sottofondo di strepiti infantili.

Sempre al cellulare, diventato ormai una protesi, si alternano le notifiche nelle chat delle mamme. Chi ha figli in età scolare sa che i gruppi WhatsApp di genitori sono uno dei castighi della vita, e in quarantena la sofferenza si è moltiplicata: abbiamo la chat di ginnastica artistica, quella di solfeggio, le chat delle classi, messaggi inoltrati dalle maestre, messaggi da inoltrare alle maestre, messaggi che arrivano senza le maestre. Rispetto alle altre mamme mi sento sempre un passo indietro, perché loro trovano il tempo anche per mandare il Buongiornissimo Caffè, mentre io non ricordo nemmeno quando la mia giornata sia iniziata. Ho un vago ricordo del sole che sorge mentre sgombro il tavolo dagli avanzi della sera prima (dalla madre di famiglia ci si aspetta pure che faccia risplendere la casa) e con la mano libera avvio il computer. Oggi è un nuovo giorno, mi dico ogni mattina. Raggiungerò il successo formativo. Sarò una madre organizzata e sorridente. Bloccherò lo tsunami. Lo diceva anche Don Chisciotte.

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