La farina è diventata il nuovo bene rifugio

La farina è diventata il nuovo bene rifugio

di Eliana Agata Marchese

Il nuovo “bene-rifugio” è la farina: in clausura non facciamo che impastare. All’inizio di tutto questo, quando pareva di potersela cavare in due settimane, ero convinta che la mania della lievitazione naturale durasse poco.

Invece il “prima” è sempre più sbiadito e distante. Pasqua è passata e siamo ancora qui. Salutiamo la ripresa delle lezioni a distanza con un certo sollievo (le vacanze senza vacanza sono finite) e continuiamo, indomiti, ad impastare. Questo mi dà un certo fastidio, perché io il pane lo produco in casa da tempi non sospetti: la prima macchina è stata il regalo di un’amica per la nascita di Luciano; non mi sono mai spinta verso focacce e pizza, perché conosco i miei limiti, ma ora faccio perfino fatica a trovare la farina zero per il rinfresco della pasta madre. Al supermercato sotto casa mia lo scaffale è regolarmente vuoto.

Per procurarsi la farina bisogna alzarsi presto al mattino, perché le vendite sono aumentate di otto-dieci volte. Parola del ragazzo dietro al banco. La stessa impennata riguarda i legumi in scatola. Anche di questo subiamo le ripercussioni, perché i ceci sono una passione di famiglia. Non ho mai avuto un rapporto sano con la pentola a pressione, e quindi di comprarli secchi non se ne parla. Mi è sempre piaciuta l’immagine dei “Promessi Sposi” in cui una madre di famiglia trasporta chili di farina rubata nel grembiule, tenendo due lembi in alto, ma non avevo mai considerato l’assalto ai forni come un pericolo concreto.

Vorrei suggerire al ragazzo dietro al banco di far contingentare gli acquisti, come per le offerte sottocosto delle catene di elettronica, ma il tutto mi sembra vagamente ridicolo. Provo ad escogitare metodi al limite del consentito; potrei, per esempio, bypassare la regola del supermercato più vicino spostandomi durate l’orario di chiusura, magari in pausa pranzo, alla ricerca di un punto vendita più grosso. Poi mi sembra ridicolo anche questo e lascio perdere: non vale la pena sfidare le norme anti-Coronavirus per qualche chilo di farina. Oggi niente ceci e niente pane.

Mi preparo ad affrontare le proteste corali della prole; Luciano, peraltro, non manca di farmi notare quotidianamente come la cuoca della scuola materna cucini molto meglio di me: ah, che soddisfazioni sanno dare i figli! Io però ho un asso nella manica: da qualche giorno la pizzeria del sobborgo fa consegne a domicilio. Alla chiusura ci eravamo sentiti orfani, ma adesso stiamo superando il trauma dell’abbandono con ripetute ordinazioni. La quarantena è ben lungi dal terminare, ma almeno è finito il periodo della pizza surgelata, che aveva un sapore vagamente punitivo. E pensare che prima, in un “prima” sempre più remoto, si poteva perfino andare in pizzeria. Adesso mi sembra addirittura strano vedere le cene al ristorante nei film: ma sono matti quelli? Ma come fanno a stare così vicini?

Per il “dopo”, al momento lontano anche quello, si ipotizza un ritorno nei locali infilati in cofani di plexiglas. Scaccio il pensiero e continuo a elaborare, con piglio da contrabbandiere, stratagemmi per procurarmi la preziosa Manitoba. Prima o dopo torneremo al ristorante a ridere ancor più forte di prima. Gusteremo il sapore della trasgressione mettendo le mani senza timore sui pali dell’autobus. E compreremo farina zero senza bisogno di piani d’assalto.

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