Flaminio Piccoli, giornalista prestato alla politica

Flaminio Piccoli, giornalista prestato alla politica

di Paolo Piccoli

L' 11 aprile di vent'anni fa moriva a Roma Flaminio Piccoli. Ai trentenni di oggi è un nome che forse dice poco. Ma ci sono uomini che segnano il cammino della propria terra; lui è uno di questi, uno dei padri fondatori del Trentino. Se il Trentino è quello che è oggi, con la sua autonomia, con la sua prosperità, con il suo tessuto economico e sociale, con le sue organizzazioni di solidarietà, si deve anche a lui.

Allontanatisi i tempi della cronaca, credo sia arrivato il momento che la prospettiva storica gli restituisca la dimensione e i meriti che gli sono propri.
Non spetta a me, ovviamente, questo compito, sia in ragione di un vincolo di sangue, sia per aver con lui collaborato a Roma da giornalista parlamentare in lunghi difficili anni, compresi i 55 giorni del rapimento Moro, quando quotidianamente cadevano sotto il piombo dei terroristi delle brigate rosse magistrati, giornalisti, politici, sapendo che in quella giornata avrebbe potuto toccare a noi.

Ma non dimenticare è fondamentale, soprattutto in tempi come questi, nei quali il coronavirus si porta via subdolamente troppi testimoni del passato, di un passato oggi lasciato in eredità e alla responsabilità delle nuove generazioni, per comprendere che nulla nella vicenda di una comunità accade per grazia ricevuta e che tutto va difeso quotidianamente dagli arretramenti e dalle chiusure.

Piccoli era nato nel 1915 in Austria, a Kirchbichl, un paesino in fondo alla valle dell'Inn, dove la famiglia era stata confinata forzosamente, seguendo la sorte di 175.000 trentini, allo scoppio della prima guerra mondiale. Ultimo di quattro fratelli - prima di lui Ada, Nilo, Adone - Flaminio fino a tre anni non riuscì ad alzarsi in piedi per camminare a causa della forte denutrizione di quei tempi. Quando, negli anni '70, noi trentenni faticavamo a reggere i suoi ritmi ci diceva sornione che noi non avevamo dovuto superare la selezione naturale della sua generazione. A confronto con le limitazioni odierne, quella quarantena forzata doveva avere una carica di angosciosa incertezza infinitamente più grande.

Il padre, Bennone, aveva sperimentato a poco più di 10 anni, l'emigrazione verso il Brasile della sua famiglia, originaria di Vezzano, a seguito delle alluvioni e della crisi della vite e del baco da seta tra il 1882 e il 1885. Ritornato nell'allora Tirolo dopo la morte del padre, Bennone aveva svolto il servizio militare nell'esercito di Francesco Giuseppe ed era stato segretario del capitanato distrettuale di Cavalese e di Borgo Valsugana, dove l'aveva colto appunto la prima guerra mondiale.

Finita la guerra, la famiglia abitò nel cosidetto Fossato del teatro, agglomerato di case dietro il teatro Sociale che sarebbe stato abbattuto nel 1935 dal regime fascista per realizzare Piazza Italia, ora Cesare Battisti. La famiglia era modesta, i mezzi limitati, talvolta per sfamarsi, la tavolata si riuniva attorno ad una aringa affumicata appesa al lampadario, il "peclin" per chi ancora capisce il dialetto, con il cui tocco cercare di insaporire la polenta. Diremmo ora senza smentite che era un figlio del popolo.

I genitori morirono nel 1935, lasciando i figli poco più che ventenni. Flaminio, spinto e aiutato dai fratelli - Adone, mio padre, aveva cominciato a lavorare a 15 anni - dopo un diploma in ragioneria si laureò a Ca' Foscari in lingue e letterature straniere con una tesi in francese sulla poetica di Baudelaire.
In quegli anni partecipò alle iniziative della Juventus, associazione degli studenti medi e della Associazione Universitaria Cattolica Trentina, sezione trentina della Fuci, che, sotto la guida di sacerdoti illuminati come "don zio" Vittorio Pisoni e don Oreste Rauzi, approfondirono i temi della dottrina sociale cristiana, non troppo amati dai dettami del regime fascista; basti pensare che il fratello Nilo, responsabile della Associazione Universitaria Cattolica Trentina, quando nel 1934 si celebrò a Trento il congresso nazionale della Fuci, venne duramente richiamato dal prefetto per aver affisso dei manifesti di accoglienza dei congressisti da parte di "Trento cristiana" anziché "Trento fascista".

Quando arrivò l'ora delle decisioni irrevocabili, il 10 giugno del 1940, data nella quale Mussolini tardivamente dichiarò guerra alla Francia, per potersi sedere al tavolo della vittoria con qualche migliaio di morti, Flaminio Piccoli era tenente degli alpini. La guerra lo portò dapprima con la «Tridentina» al confine francese, poi in Albania e in Montenegro, dove ebbe una medaglia al valor civile per aver salvato un suo commilitone dall'affogare in un laghetto di montagna. L'8 settembre è a Grenoble, ove la guarnigione italiana viene catturata dai tedeschi senza sparare un colpo, per la totale assenza di ordini da parte dei vertici militari, dopo il famoso proclama di Badoglio "la guerra continua". Dopo un mese in campo di concentramento, riesce a fuggire dal treno che avrebbe portato a Leopoli, senza ritorno, i prigionieri italiani; aiutato dal maquis francese rientra in Italia dai sentieri delle montagne di confine col Piemonte e torna avventurosamente a Trento.

Qui partecipa clandestinamente alla resistenza trentina, a fianco del fratello Nilo, vice di Giannantonio Manci, finché giunse la fine della guerra. Ha trent'anni ed è uno di quei giovani che con i vecchi popolari costituirono un ponte tra due generazioni che De Gasperi ha così efficacemente descritto nel programma della Democrazia cristiana pubblicato ne "Il popolo" clandestino il 12 dicembre 1943: «Giovani che attraversarono il ventennio fascista senza contaminarsi, serbandosi nel cuore ribelli a regime oppressore… Preparandosi in opere di cultura di fraternità sociale ai giorni della immancabile ripresa».

Il 7 maggio 1945 viene costituita dai vecchi popolari la Democrazia Cristiana trentina nei locali dell'oratorio di San Pietro, prestati dall'Associazione Universitaria Cattolica Trentina. Al giovane Flaminio Piccoli viene affidato il compito di rappresentare il partito neocostituito nella direzione del giornale del Comitato di Liberazione Nazionale «Liberazione nazionale», affiancando gli altri condirettori: Giuseppe Ferrandi (socialista), Gino Lubich (comunista) ed Eugenio Russolo (azionista), a cui si sarebbe aggiunto Taulero Zulberti (liberale), rappresentanti degli altri partiti. Il suo primo editoriale avrà per titolo «Onestà».

Inizia un tragitto nel quale - alla maniera di De Gasperi ne «La Voce cattolica» e «il Trentino» e Battisti ne «Il Popolo» - il giornalismo diviene palestra di idee politiche, di confronto di valori, di battaglia dialettica in difesa dei principi, di consolidamento della democrazia in un dibattito rivolto alla popolazione, per farla giudicare attraverso argomentazioni appassionate e documentate. Sono tempi di confronti aspri, la divisione del mondo in blocchi è sempre più rigida e l'adesione del PCI e del PSI alla dottrina sovietica marxista impongono scelte rischiose, forti incognite per il futuro, anche sul piano personale; il giovane Piccoli non si tira indietro. Quando il Comitato di Liberazione Nazionale affida ad Egidio Bacchi la direzione unica del proprio organo, Piccoli esce dalla direzione e fonda il «Popolo Trentino», dapprima settimanale, poi bisettimanale, infine quotidiano che nel 1951 avrebbe assunto la testata de «l'Adige». Con pochi mezzi e pochi altri valorosi giornalisti, all'inizio Aldo Gorfer e Lino Guardini, poi via via Marcello Gilmozzi, Giorgio Grigolli ed altri, da una stanzetta di fortuna con molti debiti personali e nessun aiuto da parte del mondo cattolico, riuscì a consolidare il giornale fino a farlo diventare il quotidiano più diffuso. La nuova sede di via Rosmini per molti anni ne fu il quartier generale, prima del trasferimento alle Missioni Africane.

Alcide De Gasperi nel 1906, venticinquenne, chiamato l'anno prima dal vescovo Celestino Endrici a dirigere la «Voce cattolica», aveva scritto: «Una stampa cattolica forte, superiore in tutto quella degli avversari, ci è indispensabile come l'ossigeno che respiriamo. Abbiate il coraggio di sostenerla. I cattolici trentini stanno o cadono con la loro stampa». Fu la medesima convinzione che mosse Flaminio Piccoli fin dall'inizio di quella avventura umana e politica.

Gli anni successivi lo avrebbero portato, dal 1958, in Parlamento, ove fu rieletto fino al 1994, assumendo via via posizioni sempre più importanti, soprattutto a livello politico, fino alla presidenza dei deputati, la presidenza del consiglio nazionale e la segreteria politica della Democrazia Cristiana, nella quale avviò quell'apertura alla società civile culminata nell'assemblea degli esterni del 1981, per concludere poi la sua vicenda politica come presidente dell'internazionale democratico cristiana.

In ciò smentì un famoso aforisma di Anatole France per il quale «il giornalismo porta dappertutto purché se ne esca in tempo» perché dal giornalismo Flaminio Piccoli non uscì mai.
Pur preso dalla responsabilità politica sempre crescente, dagli impegni romani e dal raccordo costante con la sua terra, nello sfondo, per più di quarant'anni, ci fu l'amore per il suo giornale, con la "fissa" serale con il capo redattore (allora non c'erano cellulari e le chiamate nei primi anni andavano prefissate), il fondo domenicale scritto di getto su dei mezzi fogli che si accumulavano rapidamente, con la scintilla di quel "giornalista prestato alla politica" che gli si riaccendeva negli occhi ogni volta che riprendeva la penna. Egli stesso ebbe a ricordare, nel 1965, tracciando su l'Adige un bilancio, che al di là di possibili errori ed ombre che avevano accompagnato lo sforzo del giornale «intatta è rimasta la volontà di inserirsi nell'evoluzione della società in posizione costruttiva, avendo riguardo a ciò che è essenziale, avendo cura costantemente di facilitare l'irrobustimento del tessuto sociale, accompagnando e sollecitando le trasformazioni che si impongono per una comunità più giusta e più libera, dando respiro ad ogni intervento che mirasse al bene comune. Non sta a noi valutare l'apporto che ha dato il giornale alla vita della comunità locale e nazionale, in un periodo ormai così lungo e così tormentato. Ci pare di poter dire che comunque il giornale ha tenuto fede al solco che per un secolo i cattolici democratici cristiani trentini hanno, per mezzo della stampa, tracciato».

Le posizioni politiche assunte a livello nazionale - assieme a quelle della delegazione parlamentare e di molti altri uomini che hanno fatto crescere la nostra terra - hanno consentito per molti anni di avere un presidio politico di grande importanza nel mondo romano. Il Trentino, poco più di un quartiere di Milano o di Roma, senza infrastrutture commerciali e industriali di rilievo, poté avere un ascolto ed una attenzione ben maggiori del suo rilievo oggettivo.

Si è troppo spesso fatta la storia della nostre conquiste, guardando comprensibilmente a ciò che si è promosso a Trento ed in Regione, senza sottolineare con sufficiente rilievo che alcuni passaggi decisivi per la nostra terra (la nascita e poi la difesa dell'autostrada dal tentativo di impossessamento dell'Iri; il via libera all'Università, la conclusione della vertenza altoatesina, attraverso la commissione dei 19 e la conquista dello statuto del 1972, tra gli eventi più importanti) furono garantite attraverso i nostri rappresentanti più autorevoli a Roma. E lo posso ben dire con cognizione di causa, ricordando più volte quando il "montanaro", come Piccoli nel mondo romano veniva chiamato per i suoi modi sobri e poco inclini alle manovre salottiere della capitale, chiamava un ministro, difendendo il suo Trentino con toni in diplomazia definiti "franchi".

Ecco perché, a vent'anni dalla sua morte, essendone stato testimone diretto, avendo vissuto da vicino la sua passione, i suoi slanci, i suoi momenti di scoramento, la sua capacità di resistere anche nei momenti peggiori, il suo non mollare mai quando si trattava di difendere idee di libertà e di verità, anche i suoi umani errori; avendo soprattutto imparato da lui che l'istituzione va preservata prima di ogni ambizione personale, mi sembra giusto ricordarlo.

Soprattutto nei momenti difficili, una comunità, per guardare avanti non può non avere la consapevolezza di ciò che i suoi uomini migliori hanno fatto per la propria terra, da posizioni diverse, ma con onestà intellettuale e passione civile e politica: molti ne annoveriamo in Trentino, nella tradizione liberale, socialista e cattolica. Flaminio Piccoli è uno di questi.

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