Noi e il virus: "ricostruire" tutti assieme

Noi e il virus: "ricostruire" tutti assieme

di Michele Andreaus

L’«Alba del giorno» dopo è un film uscito alcuni anni fa, che racconta la rapidissima e drammatica reazione del pianeta al cambiamento climatico, con una improvvisa glaciazione. In pochi giorni il mondo cambia, con milioni di morti.

I centri nevralgici del pianeta distrutti e ricoperti di ghiaccio ed i paesi in via di sviluppo, gli unici vivibili, che divengono il nuovo centro del mondo. In questi giorni ho pensato spesso a questo film, che, seppur con toni hollywoodiani, racconta una storia ricca di significati e con alcune similitudini a quanto stiamo vivendo in queste settimane.
Il primo punto in comune, è che, come nel film, il mondo si è trovato impreparato a questa immane tragedia, sebbene i segnali del pericolo fossero ben chiari.

Senza andare a scavare nei social e leggere le cassandre del giorno dopo, l’OMS e la Banca Mondiale pubblicarono nel settembre 2019 il report “A World at Risk”, dove, a pag. 30, si legge chiaramente che uno dei principali rischi globali era una pandemia derivante da un batterio che poteva attaccare il sistema respiratorio. Il mondo occidentale in questi ultimi 15 anni è riuscito ad evitare danni letali con ben cinque epidemie-pandemie, che hanno evidenziato un crescente impatto economico, dai 30-50 mld di dollari della SARS del 2003, ai 40-65 mld di Ebola nel 2013. In particolare, l’OMS raccomandava di investire in prevenzione, nella creazione di posti letto in terapia intensiva per avere margini di manovra in caso di necessità, di investire in strutture ospedaliere, nella definizione di protocolli internazionali e univoci per la gestione dell’emergenza. Questo aspetto è in particolare di fondamentale importanza: una pandemia non può essere gestita con protocolli diversi in paesi diversi, o addirittura diversi da regione a regione.

La pandemia è per definizione globale e le chiusure dei confini non servono a contenere il virus, soprattutto quando questo è già presente. Le chiusure hanno una valenza meramente politica, volta a rassicurare un certo tipo di elettorato. In realtà la risposta politica dovrebbe essere esattamente opposta, con la creazione di strutture sovranazionali, con poteri precisi e referenti unici all’interno dei singoli paesi. È ad esempio incredibile vedere quello che sta accadendo ora in Europa: era infatti chiaro a tutti che l’Italia altro non era se non il precursore, avanti di 7-9 giorni rispetto agli altri paesi, che evidenziavano il nostro medesimo trend, solo con alcuni giorni di ritardo. E la diffusione del covid-19 risponde a precisi modelli matematici, non ci si scappa. Ma nessun paese ha adottato le misure, impopolari, volte a contenere il contagio. Anzi, alcuni paesi o sono andati deliberatamente nella direzione opposta (UK) o sono bloccati, incapaci di prendere qualsiasi decisione, se non raccomandare di lavarsi bene le mani (Svezia). Solo in questi ultimi giorni alcuni paesi si sono mossi, seguendo esattamente le mosse dell’Italia, che, finalmente, viene additata ad esempio nel mondo.

Si sentono poi molti discorsi su come ricostruire il dopo. Argomento di grande attualità, perché mentre medici e infermieri cercano di spegnere l’incendio, bisogna pensare a come ricostruire la casa, che non potrà essere identica alla precedente. La ricostruzione sarà dolorosa e costosa e anche qui non potrà essere caricata sulle spalle di singoli paesi o delle singole imprese. Alcune decisioni ed alcune riflessioni lette in questi giorni, sembra vogliano andare nella direzione di allentare i vincoli di bilancio e nel fornire liquidità al sistema da parte delle banche. Sì, questo è a mio avviso un ingrediente, ma da usare in modica quantità, in quanto potenzialmente tossico.

Mi spiego meglio: nessun paese e nessuna impresa potranno reggere i debiti che serviranno per la ricostruzione e la ripartenza. Soprattutto quei paesi e quelle imprese che sono entrati nella crisi già con un elevato indebitamento sulle spalle. Ora siamo alla finanza di guerra: vanno trovati i soldi a qualsiasi costo per rifornire il sistema sanitario e tenere in vita le imprese, ma bisogna considerare il dopo.
Quello che serve in prospettiva sono azioni volte ad alimentare la domanda, in modo che il volano dell’economia si rimetta in moto, magari con grande attenzione alla creazione di un nuovo modello di sviluppo, molto più sostenibile del precedente. Contemporaneamente vanno tenute in vita le imprese, che stanno sostenendo costi, senza realizzare ricavi, la situazione peggiore che si possa immaginare, tenendo conto che gli utili, nella maggior parte delle imprese, rappresentano pochi giorni di fatturato. Le risorse dovranno venire da precisi strumenti internazionali, che potranno solo in parte essere costituiti da titoli di debito, e a condizioni molto particolari, con un costo molto basso, una scadenza a lunghissimo termine e una sottoscrizione prevalentemente da parte della BCE e del FMI e in misura minore da parte di investitori istituzionali.

Se in questo momento l’emergenza è innanzitutto finanziaria (servono soldi subito), tra poco vedremo quella economica. Il mio non è il cinico discorso del professore di economia aziendale, ma il richiamo dell’importanza di tenere vive le economie, perché senza un’economia che crea valore, non vi sono le risorse per la solidarietà sociale, per la prevenzione, per la riprogettazione dei sistemi di welfare. Un’economia che dovesse essere per sempre distrutta, porterebbe con sé conseguenze pesantissime in termini di costi sociali. Di fatto, ci troviamo ora di fronte ad una situazione che vede venire al pettine, in un colpo solo, tutti i nodi accumulati in anni di inazione politica, di classe dirigente opportunista e mediocre, ovvero di finzioni ed astrazioni dalla realtà, dove la cadenza della totalità delle decisioni politiche era comunque il breve termine ed il consenso del giorno dopo: bastava la narrazione, tanto poi “Dio provvede”.

Ed il fatto che tutti i paesi europei ne siano colpiti, dovrebbe farci capire come l’emergenza e la ricostruzione non possano che essere affidati ad una gestione unitaria, dove ognuno dovrà fare la sua parte, ma sotto una regia comune, attenta non al singolo paese, che non avrebbe prospettiva alcuna, ma all’intero condominio: è chiaro che in questa situazione il crollo di un solo paese, determinerebbe il crollo non dell’Unione Europea, ma della stessa comunità internazionale, che andrebbe incontro ad un periodo di carestia e tensioni sociali, con gli spiriti del male liberi di circolare e di trovare ascolto proprio nelle fasce sociali più esposte alla perdita dei diritti sociali che il nostro mondo ci ha abituato a dare per scontati.

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