La Chiesa degli albanesi di Calabria

La Chiesa degli albanesi di Calabria

di Luigi Sandri

La celebrazione dei cento anni dalla fondazione della “eparchia” (diocesi) italo-albanese di Lungro, in Calabria, riporta d’attualità una questione spesso ignorata: la Chiesa cattolica, nel mondo intero, è al 95% di rito latino, ma in essa vi sono anche altri riti.

Riti che vogliono essere salvaguardati.
La cronaca recente si inserisce in una storia lontana, e drammatica: a metà del Quattrocento il condottiero albanese Giorgio Kastriota Skanderbeg, pur battendo più volte i turchi ottomani (che nel 1453 avevano appena conquistato Costantinopoli, mettendo fine all’impero romano d’Oriente), non poté debellare la schiacciante superiorità numerica dei nuovi padroni, decisi ad assoggettare anche l’Albania. È in tale contesto che, a ondate successive, migliaia di albanesi ripararono in Italia: alcuni di essi riusciranno a fissarsi nella provincia di Cosenza, dove furono loro assegnate delle terre, o zone disabitate; altri in Sicilia.

I migranti portarono con loro il rito bizantino greco nella liturgia e l’albanese come lingua parlata; e anche la loro tradizione canonica che, tra l’altro, prevede il clero uxorato. Con il tempo, la pressione del mondo latino, nel quale erano immersi, “latinizzò” gli “arbëreshë”, gli albanesi. Finalmente, nel 1919 Benedetto XV creò per loro l’eparchia di Lungro - un grazioso paese collinare di duemilacinquecento anime; e, nel 1937, Pio XI istituirà in Sicilia l’eparchia di Piana degli albanesi, vicino a Palermo.

Il Concilio Vaticano II, nel 1964, ribadì che, nella Chiesa cattolica, tutti i riti hanno la stessa dignità. Tuttavia le due diocesi albanesi in Italia ebbero molti ostacoli per mantenere il clero uxorato, perché creava imbarazzo a parrocchie confinanti latine, guidate da preti celibi. Ma, adesso, sembra che l’antica prassi sia stata pacificamente ripristinata: e, in Calabria, (quasi) nessuno si meraviglia più.

A celebrare, la settimana scorsa, il centenario della Lungro greco-cattolica, è arrivato Bartolomeo, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, “primus inter pares” nell’Ortodossia: un segnale importante di dialogo e di speranza per la riconciliazione tra cattolici ed ortodossi, divisi da uno scisma reciproco che risale al 1054. Da parte sua, il vescovo “albanese” della eparchia, Donato Oliverio, ha evidenziato che la presenza, all’interno della soverchiante Chiesa latina, di un’oasi di rito bizantino, dimostra possibile “l’unità nella diversità”.

Come in quelle ortodosse, anche in Chiese cattoliche orientali il celibato del clero è opzionale (però il seminarista deve decidere, prima dell’ordinazione, se sposarsi o meno). I parroci melkiti o maroniti, in Libano e Siria, e quelli delle diocesi greco-cattoliche di Ucraina e Romania sono, per lo più, sposati.

L’opzionalità del celibato sacerdotale risolve, forse, alcuni problemi personali e pastorali, ma non è una bacchetta magica per le Chiese, che hanno un futuro solo se creano ministeri aperti a uomini e donne, e comunità non più clericali, ma vivaci e responsabili.

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