L'Italia fa fuggire i giovani migliori

L'Italia fa fuggire i giovani migliori

di Federica Ricci Garotti

Qualche mese fa scrissi sull’Adige della desolazione dei giovani talenti che se ne vanno dall’Italia, dopo essere stati formati da scuole e università italiane, come di un problema molto grosso, e sottovalutato, dell’era moderna.

Miei, nostri studenti bravi, impegnati e creativi che vanno ad arricchire contesti professionali di altri paesi: una perdita che sarebbe nient’affatto necessaria in un paese che avrebbe le potenzialità non solo per conservare il proprio patrimonio formativo ma anche per attrarre giovani talenti da altri paesi, integrarli e rendere migliore la vita di tutti, oltre che il Pil.

A distanza di mesi, grazie a un evento interno al Festival dell’Economia nel quale una brillante giovane trentina - Silvia Merler, ricercatrice di Algebris - ha esposto dati e considerazioni relative alla fuga di cervelli, vedo confermate, anzi rafforzate, quelle mie riflessioni un po’ nostalgiche arricchendole di numeri. Sono consapevole che, nella politica della propaganda, i numeri non siano glamour e non vengano letti. Purtroppo per chi non li vuole tenere in conto, però, sono i fatti, e non le parole o le foto su Istagram che determinano lo stato delle cose. E i fatti sono questi: dal 2008 ha lasciato l’Italia un numero di giovani italiani sotto i 45 anni, ovvero nel pieno della loro forza produttiva e creativa, pari alle dimensioni di una città come Bologna, i cui abitanti si aggirano intorno ai 500.000.

La tendenza è in crescita: se dal 2008 la migrazione dei giovani era considerata funzionale per un paese tutto sommato poco produttivo come l’Italia, adesso è considerata patologica, poiché la fuga dei giovani va di pari passo con il tasso di disoccupazione, in continuo aumento. Gli economisti calcolano che, se la tendenza non diminuisce, perderemo ogni anno un numero di giovani pari alle dimensioni di una città come Bergamo.
Uno degli elementi più tristi di questa fuga dei giovani dall’Italia riguarda il profilo degli stessi: il 43% dei giovani che se ne va è in possesso di una laurea magistrale conseguita in Italia, si tratta pertanto di un 43% di perdita netta di investimenti. Noi professori li formiamo (bene), loro se ne vanno a contribuire con le loro competenze alla crescita di altri paesi.

La maggior parte di questi giovani proviene dal Nord Italia, in particolare da zone come il Nord Est (in particolare il Friuli) e di Nord Ovest (Piemonte e Lombardia occidentale): questo significa che quelle zone e quelle regioni non solo invecchiano, restando prive di ricambio generazionale, ma si impoveriscono.

Ma i numeri diventano interessanti soprattutto se si confrontano le percentuali e la tipologia di chi parte con quelle di chi arriva: nonostante la paura diffusa dell’invasione dal sud del mondo, il saldo è decisamente negativo. Negli ultimi dieci anni il picco delle persone sbarcate in Italia da altri paesi è stato raggiunto nel 2016 con meno di 200.000. Dal 2017 si è attestato intorno ai 130.000 ed è in calo. Aggiungiamo che non tutti quelli che sbarcano restano in Italia (anzi, la maggior parte se ne vuole andare in altri paesi più attraenti).
Al di là delle questioni etiche, che attengono alla coscienza di ognuno, sull’accoglienza e sul trattamento di chi ha più bisogno, restano i numeri.

Come docente e come cittadina (e, permettetemi, anche come madre) sono personalmente molto più preoccupata della perdita che non degli arrivi. La mia impressione è che la politica guardi al problema dei movimenti delle giovani generazioni dalla parte sbagliata: anziché diffondere il panico per quelli che arrivano, insistendo su parole come “invasione”, sarebbe saggio preoccuparsi per la desertificazione del nostro paese, tutto occupato a tutelare le generazioni più anziane, già tutelate come quelle giovani non saranno mai, a incentivare i conflitti tra noi e loro, e occuparsi maggiormente di creare un solido terreno culturale, economico, professionale per la parte migliore, i nostri figli, istruiti e formati.

La desertificazione del paese non è compensata: il conto tra chi se ne va e chi arriva non è in pareggio e sarà sempre di più così, Ma, attenzione, il saldo non è negativo a causa delle politiche di respingimento dei migranti, perché è abbastanza ovvio che un paese che si chiude si chiude per tutti, anche per chi vorrebbe portare in Italia competenze e idee. Resta da capire cosa faremo di questo Paese stagnante, una volta che ci ritroveremo tutti chiusi tra le nostre mura nazionali.

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