I magistrati onesti ci sono

I magistrati onesti ci sono

di Pasquale Profiti

Soffro. È un malessere che parte dalla testa e prende lo stomaco, un senso di impotenza e frustrazione che fa mancare l’ossigeno, taglia il fiato, strozza la voce. Spero che la rabbia possa prendere il sopravvento, la rabbia da indignazione che sprigiona energia.
Questa volta non ci riesco, quello che leggo sui quotidiani delle condotte di magistrati che si incontrano in ore notturne, frequentano assiduamente imprenditori e politici, concordano spartizioni di posti di dirigenti con la politica fuori dai luoghi istituzionali e con chi dovrebbe restare separato dalla magistratura, mi fa star male. Importa poco se quelle condotte sono penalmente rilevanti, disciplinarmente sanzionabili o del tutto irrilevanti giuridicamente. Non costituiscono il mio modello di magistrato.
Non capisco il perché di tale sensazione di dolore. In fondo io posso dire che lo sapevo e lo avevo detto.

Avevo già detto e scritto pubblicamente che se avessimo guardato dentro di noi avremmo trovato non solo i collusi con i potenti, i venduti al miglior offerente, ma anche chi semplicemente s’inchina alle chiamate del politico, anche se quel politico offende la nostra dignità o getta fango su chi, come noi, ha giurato fedeltà alla Costituzione. Dovrebbe essermi di consolazione il fatto di non aver avuto paura per la mia carriera quando, in occasioni ufficiali, avevo evidenziato che dentro di noi abbiamo già trovato coloro che intendono il proprio ruolo, la propria notorietà, la propria carriera, la propria nomina a Presidente o a Procuratore non come un servizio, un’assunzione di responsabilità ulteriore, ma un motivo di prestigio personale, di sfoggio d’importanza ed autorità, per ottenere piccoli o grandi vantaggi negli esercizi commerciali o nelle località turistiche, nell’utilizzo delle auto di servizio o del personale dell’amministrazione.

E non mi è di sollievo pensare che in tempi non sospetti, mentre difendevo il diritto dei magistrati di manifestare il proprio pensiero sui temi della legalità, evidenziavo che i magistrati di cui aver timore, quelli di cui preoccuparsi in termini d’indipendenza ed imparzialità erano, al contrario, coloro che frequentano imprenditori condannati, che dicono di dare un’occhiata ad un procedimento perché glielo hanno “segnalato”, che s’iscrivono ad associazioni frequentate da persone in vista dell’imprenditoria e della politica. E potrei pure spendere il merito di aver rifiutato offerte dalla politica, di aver declinato l’invito a far da consulente per commissioni parlamentari, perché si sarebbe facilmente scoperto da chi, da quale parte politica proveniva la nomina: legittimo per coloro che hanno accettato, ma non è quello il mio modello di magistrato.
Potrei dire ora: vedete, avevo ragione. È una ragione che non mi aiuta, la sofferenza permane. Devo capire perché, da dove nasce e perché non si placa: è l’unica via per farla passare. Cerco di analizzare in profondità che cosa mi disturba. La prima ragione la individuo più facilmente: mi è oscuro perché molti colleghi inseguono i posti direttivi quasi come fosse il coronamento per rendere dignitoso il loro lavoro. È l’attrazione per il potere, un potere effimero. Un qualcosa che molti cittadini non sanno è che per noi magistrati lo stipendio di un presidente o di un procuratore capo è lo stesso di un altro magistrato non dirigente con la stessa anzianità. Non solo, nella mia esperienza sono molti i magistrati che nominati ai vertici di un ufficio, appendono al chiodo la toga, vogliono dimenticare i processi, di emettere sentenze, di avere a che fare ogni giorno con la vita delle persone e con le ingiustizie grandi o piccole che la legge ci incarica di governare. Dimenticano di fare quello che continuo a ritenere essere tra i mestieri più belli del mondo, che ti fa essere contento di entrare in ufficio ogni giorno.
Perché tutto questa corsa ad occupare un posto per poi quasi smettere di fare i magistrati? È pura vanagloria, una gloria apparente. E non rimarrà neppure questa una volta andati via, in pensione o in altri uffici: di loro nel migliore dei casi non rimarrà alcun ricordo, nel peggiore dei casi quel ricordo resterà: di disistima. Questa riflessione mi porta un minimo sollievo. È però la seconda ragione di malessere che non riesco a tamponare. Sono i colleghi che arrivano in ufficio la mattina prestissimo, che escono la sera tardi, che passano i fine settimana a studiare le carte dei processi, che sentono l’importanza di ogni atto del loro ufficio, sia che riguardi un caso assurto alla ribalta delle cronache che la vicenda di un piccolo furto commesso da un disperato. Sono loro la principale ragione del mio malessere, perché il discredito schizzerà anche su di loro.

Sono certo che loro continueranno a guardare ogni carta di ogni fascicolo con la stessa attenzione e lo stesso scrupolo; non ho dubbi che non si faranno prendere dallo sconforto, perché hanno visto e resistito di fronte a magistrati che, invece, intendevano il loro ruolo come pure potere o trampolino di carriera. Ma questo non mi basta, perché per loro, che pure ci sono, che continueranno a svolgere indagini o scrivere sentenze con la stessa passione che avevano il primo giorno di magistratura e ad indossare la toga con onore ed orgoglio, il cittadino non riuscirà ad essere neutrale, attrarrà anche loro nel circuito dell’inaffidabilità e della sfiducia. Ecco, forse ora sta tornando la rabbia ed il malessere si attenua: non si deve gettare la spugna, anche noi abbiamo una parte di colpa, dovevamo e possiamo fare qualcosa di più per metter a nudo quel sistema di gestione del potere che non condividiamo, proporre soluzioni che impediscano ai collusi o ai non impegnati di condizionare non solo il nostro lavoro, ma anche la nostra dignità.

I magistrati che amano il proprio lavoro, che ne fanno una ragione di vita, che ancora sentono i battiti del cuore salire ogni volta che pronunziano una sentenza in nome del popolo italiano, devono raddoppiare i propri sforzi, segnare e rendere ancora più visibile il confine tra loro e quelli che “in nome del popolo italiano” non hanno o forse non hanno mai avuto l’orgoglio e l’onore di sentirlo pronunziare. È l’unica strada che ci resta affinché la fiducia nella nostra istituzione, quella istituzione per cui ogni nostro sacrificio non sarà mai vano, torni nella testa e nei cuori dei cittadini.

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