L'Italia e il bisogno di Alta Velocità

L'Italia e il bisogno di Alta Velocità

di Maria Garbari

In Italia non è nuovo il tema dell’alta velocità su rotaia e della rettificazione delle linee ferroviarie attraverso la perforazione delle montagne in modo da allacciare rapidamente i grandi mercati d’oltralpe con quelli del nostro paese. La questione riveste un carattere eminentemente politico, ossia l’uso delle risorse stanziate nel bilancio dello stato per interventi settoriali legati al presente, e fonti d’interessi elettorali, o per essere inserite in una visione più ampia rivolta al futuro. Nel luglio 1935 a Trieste si tenne il congresso nazionale degli ingegneri per ipotizzare soluzioni al problema del traffico fra l’Europa centrale e l’area del Lombardo-Veneto, constatata l’inadeguatezza della rete ferroviaria esistente nonostante gli avvenuti miglioramenti. L’esigenza dell’alta velocità era legata a una visione economica poco coincidente con quella del regime fascista.

Il regime fascista e le scelte di Mussolini, infatti, erano interessate solo a ottenere il consenso di massa. Il duce, privo dei principi fondamentali dell’economia politica, passava da una suggestione all’altra sull’onda del populismo necessario per la costruzione del mito personale. Agli inizi degli anni Trenta, attratto dal fascino del corporativismo, pensò che questa fosse la via maestra per il consenso. Ritenendo inoltre importante l’intervento dello stato nell’economia, nel novembre 1931 volle la creazione dell’Istituto mobiliare italiano (Imi) e, nel gennaio 1933, dell’Istituto di ricostruzione industriale (Iri), ma senza mettere in atto una vera programmazione e pianificazione.

Egli, comunque, rimaneva sempre legato alla tesi ruralistica che riteneva riflettesse la realtà sociale del paese dove il duce , a torso nudo, falciava il grano fra i contadini. Mussolini non poteva però chiudere gli occhi sulla realtà industriale e sulle esigenze dell’imprenditoria lombarda  e piemontese, come traspariva dalle rampogne di Gino Olivetti, esponente del mondo industriale. Per la vaghezza delle iniziative fasciste, correva il malcontento anche nel mondo finanziario e in quello dei lavori pubblici dove venivano postulate le grandi opere di natura strutturale. Le scelte del duce, prive di linearità, dipendevano sovente dall’irritazione per l’ascesa politica ed economica della Germania, uscita nell’autunno 1933 dalla Società della Nazioni.

Hitler, accelerando i tempi, mirava all’inclusione di tutti i tedeschi in un grande Reich. L’assassinio del cancelliere  austriaco Dollfuss il 25 luglio 1934, vide Mussolini inviare i battaglioni al Brennero per bloccare, almeno momentaneamente, l’Anschluss dell’Austria. Successivamente, nel gennaio 1935, la regione della Saar votava con oceanico plebiscito l’annessione alla Germania e, subito dopo, nel marzo, Hitler proclamava la totale libertà del riarmo e la coscrizione generale. A questo punto il devoto allievo tedesco aveva superato il maestro Mussolini e venivano ribaltati i rapporti di forza in Europa. Le scelte del duce riflettevano il rancore verso l’emergere del Führer e non perdevano occasione per dimostrare la genialità mussoliniana nella politica italiana e nei rapporti internazionali. Nel congresso degli ingegneri svolto a Trieste non venivano tenute in conto le scelte umorali del duce ma solo alcune ipotesi atte ad assicurare lo sviluppo economico del paese con lo sguardo rivolto al futuro. Allora, ovviamente, veniva preso in considerazione solo il traffico merci e persone su rotaia, non su gomma, e non erano sorti ancora i problemi dell’inquinamento e della difesa dell’ambiente. I progetti mancavano del presupposto vincolante costituito dall’analisi costi-benefici, anche se non erano assenti le preoccupazioni per l’alto costo delle iniziative; la corretta programmazione e la realizzazione degli interventi in tempi differenziati avrebbero però permesso l’attuazione delle grandi opere. Le ferrovie importanti per il traffico delle merci risultavano inadeguate nonostante alcuni raddoppi ed elettrificazioni. La via del Brennero, principale collegamento fra il centro europeo e l’Italia, era in forte arretrato. Essa, con pendenze fino al 25 per mille, raggiungeva i 1370 metri di quota a cielo scoperto e quindi minacciata d’interruzioni per valanghe e slavine.

Per mancanza di rettifiche la distanza Milano-Monaco risultava di km 597e quella fra Venezia e Monaco di 569. Bisognava avere coraggio e convertirsi a soluzioni radicali perforando le montagne e rettificando i percorsi. I progetti in esame erano tre: il traforo dello Stelvio, la linea del Predil e quella delle Alpi Aurine. Il primo, che comportava per la ferrovia pendenze e contropendenze, accorciava la via Milano-Monaco di 100 km e recava vantaggi alla Lombardia e al porto di Genova; la linea del Predil risultava utile solo per Trieste e Venezia mentre il progetto che prevedeva il traforo delle Alpi Aurine risultava il più interessante perché, con una biforcazione dopo la galleria di Campo Tures, avrebbe fatto gravitare il traffico in misura equa verso Milano e Genova e verso Venezia e Trieste.

Questi due ultimi porti, polmoni del mare Adriatico disteso come un cuneo creato dalla natura per avviare i commerci della Germania e dell’Austria verso il Mediterraneo, andavano potenziati e sviluppati, specie Trieste decaduta, dopo l’annessione all’Italia, dal suo ruolo internazionale. Era prevista inoltre per la linea del Brennero la costruzione di una ferrovia tra Domegliara e Peschiera in modo da accorciare la strada tagliando l’angolo di Verona. Al centro dell’attenzione si collocava anche la ferrovia della Valsugana troppo lenta, tortuosa, incastrata nel primo tratto fra paesi e montagne, poco adatta al traffico di merci sempre in aumento. Essa rappresentava la via naturale e più breve fra la linea del Brennero e Venezia e risultava necessaria per non isolare il Trentino dallo sviluppo della pianura veneta e per renderlo partecipe ai vantaggi di un traffico commerciale altrimenti costretto a imboccare la strada di Verona.

Di qui l’urgenza dei lavori per la sua rettifica e ammodernamento stimati complessivamente nella cifra di 250 milioni. Tutti i progetti esaminati a Trieste erano accompagnati da mappe, da documenti di carattere topografico, statistico, economico, dei costi e benefici, ma il loro interesse non riguarda per noi la situazione legata a un preciso momento storico, bensì lo spirito che li animava. Nei progetti lo sguardo era rivolto al domani nella persuasione che non bastasse realizzare le opere urbanistiche e viarie atte a soddisfare i bisogni del presente e frantumare le risorse finanziarie in bilancio per creare il consenso della popolazione. Occorrevano le grandi opere per allacciare l’Italia all’Europa e al Mediterraneo facendola così entrare nel pulsare della vita internazionale. In questo senso esse avrebbero costituito un contraltare agli irrigidimenti nazionalisti e alle contrapposizioni politiche che alimentavano il militarismo.

Lo scoppio della sciagurata guerra contro L’Etiopia il 3 ottobre 1935 fece rientrare nei cassetti i progetti dei trafori delle Alpi e delle rapide comunicazioni fra i mercati italiani e quelli di Germania e Austria. Al loro posto alitò sul paese lo spettro delle «inique» sanzioni deliberate contro l’Italia dalla Società delle Nazioni e, in contrapposizione, il miraggio dell’autarchia pagato nell’immediato con l’obbligo di dare oro alla patria e il sacrificio delle fedi nuziali. Mussolini, celebrato come fondatore dell’impero, diventava il succube di Hitler e di una Germania dove l’economia era totalmente condizionata dalle scelte politiche. Anche in Italia e nelle sue colonie i lavori pubblici vennero finalizzati a rendere eterno il mito del duce, non per accrescere la libertà e le prospettive dell’internazionalismo.

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