Il digiuno educa il cuore... e il corpo

Il digiuno educa il cuore... e il corpo

di Giancarlo Bregantini

Ritengo importante rivisitare in questi giorni di quaresima il senso del digiuno. Ne sentiamo parlare. Un po’ dappertutto. A volte come un vanto eroico. Altre con timidezza. Sappiamo di certo però che esso non è riservato ad un solo momento dell’anno. Guai se fosse così. Perché il digiuno non è una questione che riguarda l’esteriorità di noi. Esso coinvolge le misure del cuore. Gli aneliti dello spirito. Educa le richieste del corpo. Plasma soprattutto l’intimo della coscienza, da dove passa il nostro modo di rapportarci alla vita, agli altri, alle cose. Dei cari amici non credenti lo ritengono un’invenzione umana, e mi è necessario dialogare a fondo con loro, per capirne le convinzioni, le differenze. Loro s’interrogano sul che «cos’è il digiuno».

Si impegnano intellettualmente a definirlo, ma il digiuno non si può circoscrivere in una sola parola. Il digiuno ci pone fra i due estremi della vita: io e l’altro. E qui entra in gioco il «perché il digiuno». Non è una selezione fanatica del cibo. Un’astinenza drammatica o spettacolaristica. Non è una semplice pratica imposta su qualcuno. O una simulazione né una penitenza. È piuttosto un riporre noi stessi nel giusto valore delle cose e del tempo. È agire a favore dei piccoli, degli ultimi. È fare memoria del bisogno che ha l’altro. È sentire dolore nel petto di fronte alle ingiustizie immani presenti nel mondo. È piangere per i bombardamenti in Siria.

È dire no all’odio e alla violenza. È digiunare, privare cioè la nostra volontà di ogni espressione di male. È fare a meno di ciò che ci sciupa nella dignità di uomini e donne. È l’essere aperti ad una maggiore conversione del cuore. È lavorare per una destinazione alta e nobile della nostra persona. È rinunciare perciò ad un destino arido e infelice, dove l’infamia fa da padrona e cammina sottobraccio alla corruzione. Non è altro il significato se non questo di astenerci dall’iniquità, perché nessuno sia costretto a digiunare, ad essere privato del pane. E come dice san Bernardo impegnarci instancabilmente a «credere che, quando amiamo, l’acqua del timore sarà cambiata nel vino dell’amore». Perché la Bibbia non lascia ombre su questo: «Il digiuno che io gradisco non è forse questo: che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo? Non è forse questo: che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne? Allora la tua luce spunterà come l’aurora, la tua guarigione germoglierà prontamente; la tua giustizia ti precederà» (Is 58, 6-8).

Difendi cioè la tua vita e quella dei tuoi fratelli da tutto ciò che la può depredare, mortificare e spegnere. Siamo di fronte ad una vera e propria dinamica diffusiva di bene da seminare largamente, da credere, da edificare e per cui lottare ogni giorno.
Dentro la pagina del Vangelo di oggi Gesù si mostra nella Sua luce insuperabile proprio poco prima della salita a Gerusalemme, perché i discepoli facessero memoria di tanto splendore, non appena saranno travolti dentro quella oscurità che da lì a poco lo avvolgerà nella condanna a morte.

La Trasfigurazione è una promessa di luce che vince le tenebre, anche se esse sembrano prevalere. Beato l’uomo che coltiva in sé il desiderio del cielo. Davanti a noi camminerà la giustizia, risplenderà ogni opera di amore che abbiamo adempiuto. Perché riedificheremo le antiche rovine, rialzeremo le fondamenta distrutte e inaridite, restaureremo i sentieri che portano alla vita e abiteremo finalmente presso i ruscelli dell’eredità del mondo nuovo.

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