L'importanza di andare a votare

L'importanza di andare a votare

di Gianfranco Postal

In questo tempo di grande cambiamento, si ha spesso l’impressione di essere travolti, di non riuscire ad essere incisivi, a contare qualcosa, come cittadini, sugli obiettivi perseguiti dalle istituzioni e soprattutto da coloro che delle istituzioni hanno la responsabilità politica o anche tecnica e al contempo il potere di decidere.

Ora che sono conosciuti i simboli delle liste e i nomi dei candidati in competizione, e sta avviandosi la «campagna elettorale», molti si interrogano ancora sul da farsi: prima di tutto se votare o astenersi. A questo genere di domanda è bene porre comunque una prima risposta: riflettere sul valore e sul significato del voto popolare, in particolare di quello per l’elezione degli organi costituzionali dello Stato, delle Regioni e dei Comuni.

Il diritto di voto innanzitutto è una delle massime espressioni della Democrazia, quindi della sovranità popolare.

Non dimentichiamo, infatti, che l’articolo 1 della Costituzione afferma che la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, e che la partecipazione all’elezione dei rappresentanti ne costituisce certamente una fondamentale espressione, essenza stessa dei diritti di cittadinanza in un ordinamento democratico. È questa infatti una definizione comune a tutte le Costituzioni degli Stati democratici: il diritto di voto (e di essere votati) è dunque anche uno dei modi più importanti per dare concretezza al diritto di tutti i cittadini e lavoratori di partecipare all’organizzazione politica del Paese, sancito dall’articolo 3 della Costituzione.

Prima di decidere se votare o rinunciare, vale anche la pena di ricordare quanto sia costata l’affermazione di questo fondamentale diritto e quanto valore esso abbia avuto per chi, prima di noi, ha saputo conquistarlo, con il suffragio universale riconosciuto a tutti i cittadini, uomini e donne che hanno raggiunto la maggiore età (articolo 48 della Costituzione italiana, ma elemento comune a tutte le democrazie costituzionali). Ricordiamo pure che prima il diritto di voto apparteneva ad una minoranza di elettori, maschi e di elevata condizione sociale o comunque appartenenti a determinati circoscritti ceti sociali (suffragio ristretto); nel Regno d’Italia dell’800 il diritto di voto apparteneva ad una fascia tra il 2 e il 7 per cento della popolazione (Treccani).

Roberto Bin, in un articolo pubblicato il 30 gennaio, rileva ed evidenzia una domanda oggi abbastanza diffusa, fondata sul crescente scetticismo verso le istituzioni e che può essere alla base di una prossima scelta di astensione: serve a qualcosa votare? Le ragioni di tale scetticismo potrebbero essere di due ordini: «Non serve perché le decisioni che contano non le prendono più l’Italia e i suoi organi politici; non serve perché tanto i politici e i partiti sono tutti eguali».

Rispetto alla prima affermazione va evidenziato che l’Italia comunque concorre, ed ha sempre concorso, con il suo Governo, il suo Parlamento e i suoi rappresentanti alle decisioni prese in sede europea ed internazionale, per cui rinunciare ad esprimere quel Governo e quel Parlamento vuol dire anche rinunciare a priori a concorrere alle decisioni che poi comunque ci «pioverebbero addosso». Inoltre molti ambiti decisionali, quali l’istruzione, la formazione, la cultura e i beni culturali, l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni, rimangono comunque prevalentemente in ambito nazionale e regionale. Con riferimento alla seconda tesi (i politici sono tutti eguali) esaminando più a fondo gli effetti delle politiche dei vari governi e delle leggi approvate durante la loro permanenza in carica, potremmo meglio ed oggettivamente valutare anche le profonde differenze: semmai va notato al proposito che, al di là delle ottime intenzioni e delle sacrosante espressioni di principio contenute in molte fondamentali leggi, non vi è ancora una grande e diffusa passione per l’obiettiva analisi dei risultati ottenuti. E questo non solo a fini di valutazione dell’operato dei politici e delle istituzioni, ma anche solo per evidenziare la possibile doverosa correzione delle norme e dei programmi che non avessero sortito gli effetti desiderati, rispetto anche alle risorse impiegate.

Ciò detto occorre anche considerare il punto di vista di chi ritiene di attribuire un valore politico all’astensione, soprattutto quando il fenomeno raggiunge livelli assai elevati, come accade negli anni più recenti anche in Italia, anche a livello regionale e locale.
A titolo di esempio, nel caso di un referendum abrogativo, l’astensione dal voto, sebbene discutibile, equivale di fatto ad una volontà contraria all’abrogazione, in quanto volta ad impedire il raggiungimento del numero minimo necessario dei votanti per la validità del referendum stesso.

Ma nel caso di elezione degli organi di istituzioni fondamentali (Parlamento, Consiglio regionale o comunale) per la vita della Comunità, l’astensione ha oggettivamente più un significato di rappresentazione del disagio, di valore più sociologico che politico. In tal caso l’astensione dal voto ha un significato e un effetto prevalente ed immediato, che è quello di lasciare decidere agli altri, mentre l’effetto politico è assai più indiretto e mediato. Non per nulla la Corte costituzionale, in una sua recente sentenza (35/2017) in materia di leggi elettorali, ha ribadito la peculiarità e il rilievo costituzionale del fondamentale diritto di voto, che svolge una funzione decisiva nell’ordinamento costituzionale.

È pur vero che è stato abrogato l’articolo 115 del DPR 361 del 1957 che prevedeva che l’elettore che non avesse esercitato il diritto di voto dovesse darne giustificazione al sindaco; in caso contrario era prevista, come sanzione, la menzione nei certificati di buona condotta. È pur vero che il voto rimane un dovere civico, come prevede l’articolo 48 della Costituzione, ancorché non sanzionato.
Ma è soprattutto vero che la rinuncia al suo esercizio, per quanto motivata e fondata su buone ragioni, appare come rinuncia ad un diritto fondamentale, che al contempo costituisce fondamento dell’ordinamento democratico.

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