L'instabile Trump e i rischi mondiali

L'instabile Trump e i rischi mondiali

di Gianni Bonvicini

A quasi un anno di distanza (20 gennaio 2017) dal giuramento di Donald Trump a 45° Presidente Usa abbiamo una sola certezza. Trump si considera un genio, anzi per dirla con le sue parole uno «stabile genio». A renderci perplessi è quell’aggettivo «stabile», almeno se guardiamo al caos provocato da suoi tweet e all’apparente improvvisazione di gran parte delle sue decisioni. Forse poteva vantarsi più correttamente di essere «genio e sregolatezza». Ma tant’è, ora è tempo di un primo bilancio.

Sul piano interno tutti lodano la sua vittoria nel tagliare drasticamente le tasse. Festeggiano la borsa e il mondo imprenditoriale. Attendono con qualche impazienza i poveracci, sperando che si verifichi la promessa trumpiana di milioni di posti di lavoro (promessa che ne ricorda di analoghe di casa nostra). Peccato che nel breve periodo verranno a mancare le risorse finanziarie necessarie a sostenere l’enorme spesa pubblica americana.

A cominciare da quella per la salute (di qui l’affossamento dell’Obama care) o per avviare nuove iniziative fra cui la costruzione del famoso «muro» che dovrebbe bloccare l’immigrazione clandestina dal Messico (18 miliardi di dollari).
Meglio, nella visione di Trump, rimandare a casa più di un milione di bambini entrati clandestinamente (in maggioranza ispanici), cui si aggiungono circa 260mila Salvadoregni scappati dal terremoto del 2001 e che avevano trovato ospitalità negli Usa. Così si risparmia e si manda un forte messaggio sul fronte delle politiche trumpiane di rifiuto dell’immigrazione. Per fortuna un giudice di San Francisco ha momentaneamente bloccato la direttiva.

Ma è sul versante internazionale che il primo anno di Trump ha lasciato i segni più corrosivi sul potere e l’influenza degli Stati Uniti nel mondo. Si è assistito infatti all’erosione delle caratteristiche storiche della politica estera di Washington, ed in particolare il sostegno delle regole e istituzioni internazionali, l’uso del «soft power» in termini di difesa dei valori universali e individuali, l’affidabilità nei confronti degli alleati e la volontà di risolvere i grandi problemi internazionali. Trump, con andamenti erratici e imprevedibili, ha preso le distanze dall’Onu minacciando il taglio dei finanziamenti, ha denunciato il patto commerciale con Canada e Messico (Nafta), ha dichiarato inammissibile il trattato sul nucleare con l’Iran e si è ritirato, salvo ripensamenti, dal grande accordo di Parigi sull’ambiente.

Per non parlare poi dell’annuncio di trasferire a Gerusalemme l’ambasciata americana o di bombardare il Nord Corea anche in fase preventiva. Il tutto è stato reso ancora più complicato e privo di ordine logico dalla disorganizzazione interna alla Casa Bianca, da uno staff molto sottodimensionato in termini di personale qualificato, dai numerosi cambiamenti di collaboratori e dai continui dissidi con quei pochi che hanno resistito alle mosse del loro capo.
Ma se vogliamo guardare con occhio un po’ più benevolo al primo anno di Trump possiamo consolarci nel constatare che, malgrado tutte le minacce verbali, il presidente Usa non ha lanciato un attacco preventivo contro la Corea del Nord, si è ben guardato dal ritirarsi unilateralmente dall’accordo sul nucleare con Teheran, non ha ancora iniziato una guerra commerciale con i suoi vicini del Nafta e ha abbassato i propri toni di guerra commerciale con la Cina, non ha avviato le procedure per permettere alla CIA il ritorno all’uso della tortura e alle operazioni clandestine.

In genere, si potrebbe affermare che ha twittato molto ma ha trattenuto le proprie azioni sull’orlo del precipizio. In parte ciò è dovuto alla positiva resistenza di alcuni suoi collaboratori, James Mattis alla difesa e John Kelly suo capo di gabinetto, e all’«auto-suicidio» pubblico del suo più nefasto collaboratore, il Rasputin della Casa Bianca, Steve Bannon, che in qualità di ispiratore del recente libro scandalistico di Michael Wolff ha chiuso definitivamente la sua carriera al fianco del presidente. Da un’altra parte sembra che Trump abbia parzialmente compreso che il vivere nella Stanza Ovale non equivale ad essere in campagna elettorale (per di più muovendosi dall’opposizione dopo gli anni di Obama alla Casa Bianca) e che quindi ben poche decisioni possono essere prese in modo solitario, senza passare per i contrappesi politici e istituzionali tipici della democrazia americana.

Questo bagno di realismo non deve tuttavia illuderci. Il 2018 ci ripresenterà ancora intatti i problemi su cui si è misurato Trump nell’anno appena trascorso. La sfida con la Corea del Nord può riaccendersi, se i tentativi di quasi-normalizzazione con quella del Sud in occasione dei giochi olimpici dovessero chiudersi senza un nulla di fatto: l’osceno tweet sul bottone nucleare più grosso ed efficiente può tornare di attualità se Kim Jong Un dovesse lanciare altri missili a lunga gittata o riuscire nello sforzo di miniaturizzazione delle testate nucleari.
La rottura con l’Iran è ad un passo dal realizzarsi e con essa si sconvolgerebbero ancora di più gli equilibri mediorientali già compromessi dalla decisione del trasferimento a Gerusalemme dell’ambasciata Usa.

Una guerra commerciale con Ottawa e Città del Messico avrebbe conseguenze globali, facendo saltare quei pochi esempi di regole comuni ancora esistenti ed aprirebbe nuovi fronti di conflitto con la Cina e perfino con l’Europa. Per indovinare le eventuali future decisioni di Trump vanno tenute in considerazione le elezioni di «mid-term» del prossimo novembre: esse tradizionalmente servono ad esprimere un giudizio politico sui primi due anni di presidenza.

Se le spinte irrazionali e populiste, che hanno inaspettatamente dato la vittoria a Trump nel 2016, dovessero essere ritenute ancora valide per mantenere la maggioranza nelle prossime elezioni, il rischio di atti di forza del Presidente americano non sono da escludere e allora gli scenari più negativi potranno avverarsi.

Nessuno se lo augura e c’è da sperare che lo stesso popolo americano abbia un drastico ripensamento sul ruolo nel mondo della grande democrazia americana e sui limiti di questa presidenza. In fondo, alla genialità è preferibile, in un mondo interconnesso e problematico, una maggiore stabilità e ponderatezza. Meno tweet e più buon senso, please.

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