Nietzsche-Zarathustra verso una terra felice

Nietzsche-Zarathustra verso una terra felice

di Paolo Ghezzi

Finito addirittura nelle canzoni per la facilità della rima (Nice che dice? si domandava Zucchero, ma Nice sarà felice?), Nietzsche è un filosofo geniale e urticante che non smette mai di stupire, ad ogni rilettura che se ne fa. Ben venga dunque, se non altro per ripensare il cristianesimo alla vigilia di un Natale sempre più imprigionato in evento sentimental-commercial-globale - dunque normalizzato e depotenziato a festa rassicurante anziché memoria eversiva - la nuova fatica del prolifico saggista trentino Francesco Roat, dedicata alla «Religiosità in Nietzsche» (edizioni Mimesis), con un sottotitolo provocatorio ma non così bizzarro come pare, «Il Vangelo di Zarathustra».

Ma come, il pensatore che più si è impegnato a «destrutturare» la fede cristiana, ripensato come una specie di evangelista anomalo? Certo che sì. La religiosità di Nietzsche-Zarathustra non è dentro l’orizzonte di un Dio-persona, s’intende, eppure diventa «modalità interpretativa dello stupore di fronte al miracolo» dell’esistenza che non si può spiegare con l’unico strumento della ragione. Una religione che diventa «antidoto alla banalità» secondo la definizione di Remo Bodei, in quanto, a differenza dell’ateismo dogmatico, apre «la possibilità di far diventare questo mondo un’altra cosa».

Il credere di Zarathustra abbraccia la ragione poetica che sa costruire un altro mondo: così come la filosofia deve lasciare «il Grund per l’Abgrund: il terreno stabile (in apparenza) per un’abissalità la quale non deve sgomentarci, semmai colmarci di stupita meraviglia e gratitudine».
Il quinto vangelo di Zarathustra, scritto dopo l’inchiodamento del quadruplice Vangelo canonico sulla croce (una morte definitiva, per Nietzsche), propone non più un credere, «bensì un fare, soprattutto un non-fare-molte-cose, un diverso essere…» con una carica profetica che rimanda al rabbi di Nazareth. Non a caso la prima domanda in cui si imbatte il trentenne Zarathustra, che abbandona il suo eremo tra le montagne, è quella del vecchio asceta che gli chiede se vuole portare il fuoco nelle valli. «Fuoco», la stessa promessa di Gesù nei Vangeli: un salvatore che non riscalda, anzi che non accende, è la tiepida parodia di un rivoluzionario con cui non vale la pena di perdere tempo.

La predilezione per i bambini e l’insofferenza per i dotti, la missione dell’amore, la «fedeltà alla terra» (bellissima espressione di «immersione» in tutta la gioia e il dolore del mondo, senza bisogno di «riserve» ultraterrene) controbilancia dunque la definizione nicciana del cristianesimo come maledizione (in polemica con San Paolo e i cristiani suoi seguaci, ben più che con il Nazareno), e ci rivela la natura mistica dello Zarathustra che difatti spiazza il vecchio papa che gli dice: «Accanto a te, sebbene tu voglia essere il più senza Dio di tutti, avverto un segreto profumo d’incenso e una fragranza di lunghe benedizioni…».

C’è dunque, nel negatore del Dio ecclesiastico, nel nemico di una fede proiettata sull’aldilà e nemica della vita e del corpo, un «profumo» di sacro e una traccia di divino che Nietzsche ripropone nelle figure del Folle, del Poeta, di Dioniso e Pan: uomini contagiati dall’oltre, e dèi contagiati dal qui ed ora. Verso una trasfigurazione della stessa scena del mondo: «trasformerà la terra in un giorno di festa».
Alla fine delle sue 150 pagine, ricche per i filosofi e i teologi ma appassionanti anche per i non-specialisti pensanti, Roat ci ripropone dunque un Nietzsche Anticristo e insieme «cristologico», antireligioso e insieme spirituale, che ci frantuma il Natale della tradizione ecclesiastica ma, proclamando la morte di Dio, ci spalanca l’orizzonte alla nuova luce di un ritrovato senso della vita.

Oltre la notte della sofferenza fine a se stessa, o usata dal potere, brilla l’ebbrezza di una bellezza riscoperta, perfino nel dolore di vivere sperimentato dallo stesso filosofo sulle piste di un contraddittorio «oltreuomo»: un Nietzsche che vide in Gesù «la storia di un povero insaziato e insaziabile nell’amore» ma forse - conclude Roat - «avrebbe fatto meglio a parlare così di se stesso».

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