Severina spera e la scritta resiste

Severina spera e la scritta resiste

di Paolo Ghezzi

Quarant'anni fa, mettendo mano al suo romanzo finale e autobiografico «Severina» (sì, lo scrittore post-comunista aveva trovato un alter ego in una giovane suora disobbediente, ispirata probabilmente a Simone Weil), Ignazio Silone («punito» all'anagrafe, per l'incertezza dei genitori, con il nome di Secondino, cognome Tranquilli: per uno che tranquillo non fu mai!) disegnava il proprio autoritratto: un cristiano senza Chiesa, un quasi credente senza fede, un uomo che non riusciva più a credere, ma ancora sperava. E credeva nella speranza.

Anche la sua ragazza protagonista Severina, colpita a morte da un proiettile della polizia durante una manifestazione studentesca all'Aquila, aveva perso la fede eppure: «Spero, suor Gemma, spero. Mi resta la speranza». Sono le ultime parole pronunciate nel libro ricostruito con passione e scrupolo dalla moglie di Silone, Darina.

Ci sono i credenti granitici, quadrati, che usano la fede come baluardo, roccia, nei casi peggiori come arma. E ci sono gli «speranti»: quelli che, se hanno una fede, non la sbandierano ma la coltivano in silenzio: sperando, appunto, di poter crederla come vera.
Senza speranza non c'è futuro. Solo chi non coltiva più la speranza può uccidere e ammazzarsi, farsi esplodere e bombardare, scegliere l'odio e il buio, maledire la vita e la luce.

Ci sono le grandi speranze (di una vita oltre la morte, di rivedere chi è andato «oltre», di morire bene, di vivere in pace, che i propri figli non soccombano al male o alla tristezza; di vedere la pace in Palestina, in Siria, in Venezuela; di vedere trionfare la giustizia e sbriciolarsi l'arroganza del potere) ma ci sono anche le piccole, umane speranze che rendono umana la vita: trovare chi ti vuol bene, cantare sotto la pioggia, ascoltare Bach, incontrare un amore, ritrovare un amico, pedalare nel vento, ascendere una montagna, nuotare in un mare trasparente, concludere un cammino, viaggiare lontano, leggere altri cento libri, accarezzare un gatto, tirare una palla al cane, far crescere un albero, commuoversi davanti a un film.

Tornando a Severina-Silone, che anche senza fede speravano (nell'umanità, nella vita) lo scrittore ha convissuto a lungo con un dolore incancellabile, quello dell'ingiusto arresto, della carcerazione e della morte in prigione del fratello minore Romolo, nel penitenziario di Procida.

Dai fascisti gli fu concesso di studiare con i libri in cella: economia e filosofia ma non - eccelsa stupidità delle dittature - il francese. E lui, nonostante le bastonate, la tbc, il freddo e la fame, al fratello scrisse: «Con i più grandi poeti italiani per compagnia e tempo infinito per leggerli, sono proprio da invidiare e non devi preoccuparti per me». Questo è un atto di speranza.

Sui muri scrostati dell'ex prigione di Procida, inferno fatiscente sul golfetto della Corricella, un miracolo di bellezza, qualcuno ha scritto: «Guarda oltre ciò che vedi». Forse è la miglior definizione di speranza.
E la scritta resiste, oggi, sotto il sole del sud. Una scritta blu, come il mare là sotto.

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