Un re in camicia per il Paese piatto

Un re in camicia per il Paese piatto

di Paolo Ghezzi

«Il re dei belgi» (ora nei nostri cinema come «Un re allo sbando») è un piccolo film dei documentaristi Brosens e Woodworth, produzione belga-olandese-bulgara, su una piccola Europa confusa, una malinconica ironica poetica parabola post Brexit ma immaginata molto prima della Brexit e di Trump: «L’idea ci è venuta tra il 2010 e il 2011, quando è scoppiata la crisi politica in Belgio, che ha lasciato il Paese senza governo per 589 giorni. E ci ha ispirato una storia vera, quella del primo ministro dell’Estonia che, dopo essere rimasto bloccato in Turchia dall’eruzione del vulcano islandese Eyjafjöll, rientrò nel suo Paese attraversando i Balcani in autobus, senza protocollo e senza sicurezza».

Protagonista, un allampanato e simpatico Nicolas III (il bravo Peter Van den Begin), naso lungo e sguardo sensibile: un sovrano annoiato e ingessato dal ruolo che, partito da Bruxelles per la Turchia con un modellino di Atomium come regalo ufficiale di buon auspicio per l’ingresso di Ankara nella Ue (Erdogan non è evocato), viene raggiunto dalla notizia della secessione dei valloni (i belgi francofoni, sempre in polemica con i belgi fiamminghi) e ha fretta di tornare a casa, cioè a palazzo. Ma - per colpa di una tempesta cosmica che blocca gli aeroporti - si ritrova a fare il viaggio di ritorno da Istanbul con la sua piccola corte (tre persone più un regista inglese, che tutto registra) per la via di terra, dunque Bulgaria, Serbia e - pensando di approdare in Italia - Albania. Un viaggio lento, come quello di tanti profughi, in cui riscopre la vita da comune cittadino, anzi da improbabile fonico di una troupe fuori strada.

D’accordo, le metafore piovono fin troppo esplicite: come quando il re, al volante di uno scassato furgone, finisce fuori strada per non investire una tartaruga, un langeriano elogio balcanico della lentezza. Ma la parabola del riflessivo dubbioso malinconico sovrano dei belgi - involontario contraltare alla ultrarapidità decisionista trumpiana - ci ricorda che nella democrazia non ci sono più sudditi e che la politica dovrebbe tornare ad essere un’arte a misura d’uomo, nel senso che per le persone della vita reale e non per i riti del potere (apparente?) dovrebbe essere esercitata.

Le parole allora tornano ad avere un significato e Nicolas - lontano dal trono, dalle vuote formule di palazzo, dai valloni che motivano la loro secessione con l’articolato concetto politico «siamo stufi» e da una regina consorte formalista e insopportabile - scopre che non c’è nulla di disdicevole nel travestirsi da corista folk bulgara per sfuggire ai servizi di sicurezza turchi, e che sulla strada (se è vera la strada) puoi perdere il passaporto e diventare un illegale passatore di confini, ma ritrovi anche, come un regalo del cammino lento, l’umanità e la dignità: quella del sindaco scalzo del paesino degli yogurt.

Alla fine, a pensarci, «Un re allo sbando» ci parla della necessità della verità: è per questo che, nonostante le rimostranze dell’addetta stampa, Nicholas III smette di fare la marionetta reale e «comanda» al regista inglese di continuare a girare, di girare tutto, di non nascondere nulla con la sua piccola videocamera indiscreta. Lontano dal piccolo plat pays dei belgi (dove la monarchia e la birra tengono insieme due lingue e due culture), sulle strade accidentate dei Balcani, il re ha capito di essere davvero nudo. E, per la prima volta, ringraziando in maniche di camicia per una fetta d’anguria e per un kebab, con la pelle scottata dal sole ha capito il senso delle parole rovinate dalla retorica: popolo, libertà, trasparenza.

Così è pronto a tornare nel piccolo paese piatto che ospita la capitale d’Europa: «con un cielo così basso - canta Brel nel Plat Pays - che un canale si è perso,/ con un cielo così basso che costringe a essere umili,/ con un cielo così grigio che un canale si è impiccato,/ con un cielo così grigio che impone il perdono».
Ecco, forse è quella l’ultima parola che dovrebbe ritrovare la politica: umiltà. Di capire, prima di tutto. Di capire le vite degli altri.

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