La post verità è la fine della democrazia

La post verità è la fine della democrazia

di Pierangelo Giovanetti

Il 2016 che si è concluso sabato sarà ricordato come l'anno della post-verità, «post-Truth» secondo la definizione data dagli Oxford Dictionaries. Per l'opinione pubblica, gli elettori, le masse non è più importante che un fatto sia vero, verificato e dimostrato tale, ma ciò che conta è che piaccia, che ecciti emozionalmente, che susciti reazione - di godimento, ma anche di astio o di rabbia - compiacendo il proprio stato d'animo. La visceralità e lo sdegno di quanto viene detto o propalato è tale, che anche se risulta falso, non intacca la sua diffusione. Anzi l'amplifica, perché evidentemente, dimostrando che un fatto è falso, «vuol dire che qualcuno vuole nasconderlo».

Lo sviluppo della tecnologia, della rete e soprattutto dei social network ha consentito e favorito la diffusione capillare e di massa di contenuti non verificati, che per buona parte si dimostrano menzogneri, ma non per questo smettono di essere creduti e fatti circolare. Il meccanismo, privo di qualunque controllo, è risultato talmente efficace e potente da spalancare le porte ai fabbricatori professionisti di bufale, di fake, di falsi clamorosi, che diventano un impressionante strumento di mobilitazione e indirizzo del consenso.

Un'arma formidabile per i populismi, specie quelli autoritari e anti-sistema, per i nuovi leader della politica disintermediata, quella del capo e della rete che unisce direttamente la massa al leader. Così pure per gli hacker, in proprio o manovrati dagli stati, e per i movimenti che cavalcano la cosiddetta «democrazia diretta», come arma per l'abbattimento della democrazia rappresentativa, quella maturata in oltre due millenni e mezzo di storia, da Pericle ad oggi.

La post-verità è il frutto del rigetto della mediazione e dei mediatori, che siano la politica, le istituzioni, i corpi intermedi, i giornali, gli esperti; e nello stesso tempo ne è diventata l'arma di combattimento contro di essi, in una demonizzazione pericolosa di tutto ciò che è razionalità, responsabilità, pensiero approfondito, verifica dei fatti, ma anche classe dirigente chiamata per esperienza, merito, professionalità e preparazione a indirizzare le scelte e a prendere decisioni.

In questo «nuovo mondo» chi la spara più grossa, vince. Chi fa circolare la fandonia più incredibile, trionfa. Gli esperti di fact-checking (verifica dei fatti) hanno dimostrato che più di due terzi delle affermazioni fatte da Donald Trump in campagna elettorale (e anche dopo) risultano false. Ma questo non ha impedito la sua elezione a presidente degli Stati Uniti d'America. Anzi, secondo autorevoli osservatori di politica e comunicazioni di massa, proprio la falsità di quanto è andato dicendo l'hanno lanciato e favorito nella corsa alla Casa Bianca. Stessa cosa si è verificata per la Brexit nel Regno Unito: tutta la campagna referendaria si è giocata attorno ad un concetto, il pagamento di Londra di 350 milioni di sterline alla settimana alla Ue, che era falso, e dimostrato come tale da tutti gli economisti. Per non parlare del referendum costituzionale in Italia, che darà ampia materia di analisi agli studiosi per le panzane che si sono viste circolare a tutti i livelli, e moltiplicate milioni di volte dai social.

C'è chi obietta che da sempre il confronto politico, la società, i giornali sono stati costellati da non-verità. Osservazione giusta. Ma mai era stato spezzato il legame fra «verità» e «realtà», che da Aristotele in avanti ha governato il pensiero e ha modellato la società, individuando nel percorso logico-razionale lo strumento di conoscenza, e di conseguenza di decisione. Mai si era giunti ad una legittimazione del falso come «verità alternativa», libera dal sospetto del complotto e dalla manipolazione dei poteri forti, sia che si parli di politica, di scie chimiche, di vaccini o di frigoriferi.

Se la gente risulta influenzata e influenzabile più dalle emozioni che dalla realtà, non assistiamo solo ad un cambiamento della comunicazione e della relazione. Siamo di fronte ad un problema sostanziale di democrazia, perché ogni politica democratica ha alla base il principio che occorre conoscere per deliberare. E difatti i giornali sono sempre stati, fin dalla loro nascita, lo strumento primo del dibattito politico e del confronto delle idee, sottoponendo a verificabilità (o a falsificabilità di una precedente verità, per usare un termine caro a Karl Popper) ciò che veniva detto e sostenuto. Non per nulla tutti i poteri autoritari e totalitari hanno sempre cercato di zittire i giornali e il confronto delle idee, perché risultavano sovversivi del loro potere. Oggi semplicemente fanno circolare notizie false che vengono credute.

Se la politica si nutre soltanto di sospetti e delegittimazioni, di denigrazioni e menzogne come arma d'attacco dell'avversario, cavalcando e alimentando le paure figlie del mondo globalizzato e post-welfare, allora si è alla fine non solo della politica, ma della democrazia. Perché la democrazia vive e si nutre di fiducia nello strumento della mediazione, dell'autorevolezza dell'istituzione, del rispetto sociale dell'altro, della legittimità dell'azione di chi è stato eletto rappresentante degli eletti dentro l'istituzione.

La questione non è più Facebook, che cerca di correre ai ripari limitando la pubblicità a quanti veicolano e amplificano bufale e trolls appositamente per inquinare il dibattito. Il cuore è il futuro della democrazia, che non può vivere dentro il veleno culturale che è fatto circolare da tale nuova forma di politica di massa, fondata su tutto ciò che passa umoralmente dalla rete. In ballo non c'è soltanto l'influenza che una superpotenza straniera può esercitare sull'esito delle elezioni attraverso hacker e manipolazioni del web. È la sostanza della democrazia che viene meno nell'incapacità diffusa a discernere il reale, perché la democrazia è intrisa del concetto di dialogo e scambio di informazione, al fine di individuare la soluzione giusta e supportata dal consenso maggiore. Se la volontà dei cittadini matura sulla base di una visione distorta del mondo che si sono costruita acriticamente, non ne può conseguire un bene comune, ma solo il vantaggio di quanti artatamente mescolano nel torbido e aizzano le passioni e le paure, magari attraverso il blog e la rete.

È la beffa dei cittadini che si appagano dell'apparenza e della spettacolarizzazione. Il frutto avvelenato della post-verità è la post-democrazia, in cui - delegittimata la politica e i suoi rappresentanti, svuotato il dialogo e la mediazione - le decisioni vere vengono prese dalla finanza, dall'economia, dalle grosse compagnie di Cupertino e della Silicon Valley. Alla faccia dello slogan menzognero che uno vale uno, e poi a decidere è la rete. La post-verità è incompatibile con la democrazia. Se lasceremo che si radichi e si diffonda in maniera duratura, il prezzo da pagare sarà alto per tutti.

p.giovanetti@ladige.it
Twitter: @direttoreladige

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