La cella di Fabrizio tra Fabrizio e Bob

La cella di Fabrizio tra Fabrizio e Bob

di Paolo Ghezzi

«Quando hanno aperto la cella, era già tardi perché...». Anche Fabrizio l'hanno trovato troppo tardi, nella sua stanza al convento dei cappuccini di Trento. E l'incipit della Ballata del Michè, una delle prime canzoni di De André dedicata a un suicida in carcere per amore, che non ha saputo aspettare altri vent'anni per rivedere la sua Marì, potrebbe essere dedicata anche a padre Fabrizio, morto da solo nella notte dopo aver servito come ogni sera la cena ai poveri.

Sarà contento, nel paradiso dei generosi dove sicuramente è approdato con volo senza scali, di sapere che il suo corpo mortale, prima del funerale in Duomo, è tornato un'ultima volta a nord di Trento, al carcere di Spini dove molti hanno pianto perché non ci possono credere che non lo rivedranno più. Dove molti l'aspettavano come un amico che non tradiva mai.

Qualche anno fa, Fabrizio aveva voluto che il «suo» carcere risuonasse proprio delle parole dell'altro Fabrizio, il cantautore, quello che come lui amava la gente sbagliata, i peccatori e i «malviventi» (come ancora dicono certi telegiornali), e li preferiva alla gente perbene sempre pronta a giudicare, «a condannarli - come deve fare un buon borghese - a tremila anni più le spese» («La città vecchia»). Fabrizio Forti aveva dunque invitato il cembrano onorario Diego Raiteri a cantare Fabrizio De André, insieme ai giovani musicisti della «Volammo davvero band», che per la prima volta entravano in una galera.

La mensa dei poveri e la cella dei prigionieri erano l'alfa e l'omega della vita di Fabrizio cappuccino e proprio in De André aveva potuto trovare un'ispirazione laddove un pescatore, «collega» dei primi apostoli, aveva versato il vino e spezzato il pane per un assassino in fuga, «che gli diceva ho sete ho fame».

In questa predilezione per i senzacasa, i senzatavola e i senzalibertà, per chi cerca invano di eludere il destino e la forza pubblica che li vogliono in gabbia, il nostro De André, Nobel ad honorem della canzone italiana, è imparentato con il fresco Nobel dell'Accademia svedese, Bob Dylan, che al pugile nero Hurricane, ingiustamente condannato e imprigionato per omicidio, ha dedicato una storica canzone di amore e di rabbia.

E in tutta la sua sterminata produzione letteraria, che gli ha meritato il Premio di Stoccolma, mister Zimmerman-Dylan come i due Fabrizio ha scelto di cantare quelli che stavano dalla parte sbagliata (anche perché, diciamolo, sono più interessanti da cantare rispetto ai conformisti, ai noiosi, ai potenti e agli allineati al sistema).

Già nel 1972, 44 anni prima del Nobel, la sua preferenza (sociale, politica, culturale) si manifesta nella bella, semplice, malinconica ed eversiva canzone dedicata a George Jackson, militante trentenne delle pantere nere «fucilato» nella prigione di San Quintino da un colpo sparato da una torre di guardia.

«Lord Lord they cut George Jackson down, Lord Lord they laid him in the ground». «Signore Signore hanno fatto fatto fuori George Jackson. Signore signore l'hanno messo sotto terra. Le guardie della prigione lo maledicevano/ mentre lo guardavano dall'alto/ avevano paura della sua forza/ erano spaventati dal suo amore./ A volte penso che questo vecchio mondo/ non sia altro che una grande prigione/ alcuni di noi sono prigionieri/ il resto sono guardie».
Bello è pensare, anche nell'ora del dolore, che Fabrizio - con la sua forza, con il suo amore - è andato ad aspettare i suoi amici carcerati, ad apparecchiare per bene la tavola, il vino e il pane, in un posto luminoso, senza neanche un'ombra di sbarre.

comments powered by Disqus