Parole come frecce: lo stile di don Bibo

Parole come frecce: lo stile di don Bibo

di Paolo Ghezzi

Don Bibo - prete di stampo introvabile, che in San Giuseppe abbiamo salutato in tanti, che è morto molto vecchio e da troppi anni aveva purtroppo smesso di essere il don Bibo che scuoteva il mondo - appariva alto, forte come un toro, coraggioso come un leone, la voce tonante e scandita.

La voce tonante e scandita da rendenero appassionato e colto (in quella valle di montagna i tuoni risuonano).
La cifra peculiare di don Livio Botteri era l’evangelica parresìa, la virtù di dire tutto, di dirlo chiaro, di non nascondere nulla per buona educazione o ecclesiastica prudenza.

La sua parresìa gli aveva guadagnato, oltre a moltissimi ammiratori e a trascrittori fedeli delle sue migliaia di omelie (predicava anche alle messe feriali, magari pochi minuti ma sempre spiazzanti) la sospensione dalla predicazione: come dire a un leone che non deve inseguire le gazzelle, a Ray Charles che non può più cantare, a un pallavolista che non sta bene schiacciare.

Lui metteva i piedi nel piatto, «sporcava» le sue omelie pregne di buona teologia con qualche parolaccia, qualche frase dialettale pronunciata come se fosse una sentenza latina e qualche gemma biblica come se fosse una sentenza rendenera.

In un antico (22 anni fa) numero di una piccola rivista che ancora resiste, oltre a un futuro e attuale deputato che scriveva di interiorità, oltre a un futuro e attuale senatore che scriveva di Berlusconi, al futuro e attuale amministratore delegato di Dolomiti Energia che scriveva di economia e al futuro e attuale direttore dell’Adige che scriveva delle prospettive del giornale elettronico oltreoceano, in quel numero del 1994 si pubblicava una predica di don Bibo, per il suo 50° anniversario di sacerdozio, che è la summa di quel suo essere un po’ don Mazzolari, un po’ don Milani, un po’ padre Balducci, un po’ don Gallo, insomma di essere il solo ed unico don Bibo.

In quel bellissimo testo don Bibo mette insieme, come sempre felicemente faceva, l’esegesi e l’autobiografia, la teologia e la cronaca, la poesia e la polemica.

Ora, siccome le prediche brutte fanno venir voglia di diventare islamici, buddisti, donald-trumpisti o marxisti-leninisti, i rari bravi predicatori dovrebbero essere protetti come i panda e dichiarati, come fanno i giapponesi con i loro artisti, «monumenti nazionali viventi».

E siccome le prediche non si possono raccontare, ma solo ascoltare, ecco qualche frammento. Parla della sua giovinezza rendenera, del macellaio di Pinzolo Pero «dai oss», di suo fratello sottotenente degli alpini in Cadore, che «è precipitato dalla parete, si è schiantato sulle pietre, è rotolato in fondo al ghiaione, ce l’hanno portato che non si poteva neanche vedere; era dentro la sua custodia di zinco, nella cassa. E allora io in chiesa ho lottato contro Dio, ho protestato contro Dio tenendo i pugni sugli occhi...».

E così parla della rivoluzione di Gesù Cristo: «Cristo sa che la sua resurrezione come evento, come annuncio e come promessa è indigeribile. Nessuno l’ha bevuta. ... Lui presenta i suoi segni particolari, il suo corpo che porta ancora le tracce della Passione. Ma non gli credono. ... E noi sappiamo che la legge è la morte ed è legata a thànatos e ad eros, ed eros, la forza più prorompente dei viventi cioè il sesso, serve a tappare le falle aperte dalla morte. ... Ma è il Figlio eterno di Dio che cambia radicalmente il senso della vita, con quella che chiamerei la rivoluzione «palatale» del cristianesimo, cioè il cambiamento del gusto... Perché noi uomini, noi razze, noi etnie, noi gruppi siamo così feroci? Perché abbiamo il gusto degradato. Allora il Cristo ci deve rifare il palato con la sapienza del suo Spirito... Ecco perché il Cristo operaio, il Cristo evangelista, il Cristo madre, il Cristo con il grembiule blu dei tirolesi dopo la sua vittoria non celebra il trionfo, ma si dà da fare in questi cinquanta giorni per istituire la Chiesa, per attrezzare questo popolo di testoni, per vincere la resistenza di questi cubetti di porfido, attaccati alle loro radici di terra, di carne e di sangue...».

E parlando dei suoi anni in seminario durante la guerra in Val di Non: «Non c’era Gestapo, non c’era Ovra, non c’erano Ss che potessero ammanettare gli arcangeli, che potessero impedire ai meli dell’Anaunia di fiorire, e quella era la testimonianza e il sorriso di Dio che ci diceva: “Il mondo che vi ho preparato è un mondo d’amore”».

comments powered by Disqus