Ecco perché l'accoglienza è un dovere di tutti

Ecco perché l'accoglienza è un dovere di tutti

di Vincenzo Passerini

Quando atroci operazioni di guerra in cui tanti innocenti perdono la vita ci vengono sbattute quotidianamente in faccia, come è il caso del calvario infinito di Aleppo, se proprio non siamo diventati dei morti viventi, freddi come il ghiaccio, ci chiediamo cosa dovremmo fare per fermare le atrocità e i massacri, per aiutare quei poveri esseri umani. Proteste, appelli, mobilitazioni di piazza. Sì, bisognerebbe fare tutto questo. E non si fa, non si fa abbastanza, con l’eccezione di papa Francesco che invece continua a protestare e a chiamare i potenti a rendere conto di questa disumanità.

Ma c’è una cosa che oggi, adesso, tutti possiamo fare. Se noi non possiamo fermare i massacri, possiamo però accogliere i sopravvissuti, gli scampati a queste atrocità, a queste guerre, a questi disastri umanitari. Che non si verificano solo ad Aleppo, ma in decine e decine di altre città e regioni del mondo, in particolare del Vicino Oriente e dell’Africa. Guerre e disastri spesso dimenticati, di cui non sentiamo mai parlare, ma non sono meno atroci e disumani. I fuggiaschi da questi luoghi di morte e di dolore talvolta approdano da noi in cerca di una nuova vita, dopo viaggi altrettanto carichi di dolore e di morte.

Quello che possiamo fare, che ciascuno può fare, è far crescere la cultura dell’accoglienza nelle nostre comunità. Ciascuno per la sua parte, per quello che si sente di fare. A volte anche soltanto con una parola di umanità che si oppone al pregiudizio. Ciascuno può tener vivo il sentimento di fraternità in tantissimi modi. E in tutti gli ambiti. La cultura dell’accoglienza è indivisibile, è un atteggiamento umano che non distingue tra i “nostri” e gli “altri”. Perché vede l’essere umano nella sua fragilità e nella sua domanda di aiuto che ci rivolge e alla quale dobbiamo rispondere. L’essere umano, non l’italiano o l’afghano, il nero o il bianco, il cristiano o il musulmano. L’essere umano come tale, chiunque esso sia.

Muove da qui la «Settimana dell’accoglienza» che è cominciata sabato 1 ottobre e che fino a domenica 9 ottobre vedrà decine e decine di iniziative in tutta la regione, promosse dalle più svariate organizzazioni ma con un unico comune denominatore: far crescere la cultura dell’accoglienza nelle nostre comunità, in tutti gli ambiti. Perché in una comunità accogliente tutti stiamo meglio. Tutti. Stanno meglio i profughi, che si portano dietro lutti e violenze; stanno meglio gli anziani, sempre più numerosi e spesso sempre più soli; stanno meglio le famiglie, sempre più fragili e bisognose di supporto; stanno meglio gli impoveriti dalla crisi economica, i giovani in cerca di lavoro, i disoccupati perché una comunità accogliente si dà dar fare per affrontare questi gravi problemi, non lascia soli quelli che non sono garantiti da uno stipendio o da una pensione, li mette al primo posto dell’agenda politica.

La Settimana dell’accoglienza ha voluto proprio inserire la questione dei profughi, e più in generale degli immigrati, dentro la più ampia questione dei cambiamenti sociali che stanno trasformando le nostre società. Siamo di fronte a una società dove ci sono sempre più «frammenti», sempre più solitudini, personali o di gruppo. La solitudine dei profughi, o degli immigrati in generale, è anche quella di tanti anziani, è anche quella di tante famiglie, di tanti giovani, di tanti disoccupati, di tanti poveri. Di tanti non garantiti. Stiamo creando una società a compartimenti stagni invece che una comunità.

La società dominata da internet e dalla connessione di tutti con tutti è la società di tante solitudini. Un paradosso, ma è così.

I cambiamenti sociali stanno facendo crescere le solitudini, anche se siamo nella società della chiacchiera incessante. La chiacchiera, non la relazione umana. Qui è il punto, il cuore della questione. Abbiamo bisogno di una profonda e diffusa cultura dell’accoglienza per passare dalla società delle solitudini alla comunità delle relazioni umane. Non la comunità sulla carta, non quella delle burocrazie o delle propagande etniche. Ma quella dove ogni essere umano, a partire da quello che più ha bisogno, non si senta solo o rifiutato. Che sia un anziano o un profugo, un disoccupato o una madre sola.

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