Terrorismo, l'ipocrisia dell'Europa

Terrorismo, l'ipocrisia dell'Europa

di Pierangelo Giovanetti

È ipocrita e immorale, oltre che politicamente inaccettabile, il pianto greco e la litania di commemorazioni di capi di stato e premier europei dopo l'ennesima mattanza in casa da parte dell'Isis. È da irresponsabili - e per i cittadini deprimente - quattro mesi dopo le stragi di Parigi, all'indomani delle esplosioni di Bruxelles, rivedere lo stesso film di allora, senza che sia stato fatto nulla nel frattempo per far seguire alle parole i fatti, delineando una strategia europea comune di lotta al terrorismo e di scambio di informazioni di intelligence e di sicurezza. Che ci venga risparmiato almeno la parata dei politici europei per le vie di Bruxelles, o le comparsate in pompa magna e il cordoglio di circostanza trasudante retorica a fini elettorali: la famosa cooperazione europea e internazionale promessa dopo Parigi risuona oggi come un bluff. E martedì mattina all'aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles si è visto chiaramente.

La collaborazione fra i servizi segreti nazionali è rimasta sulla carta. Non esiste un coordinamento di intelligence europeo. Le polizie e le magistrature dei singoli stati non collaborano tra loro, anzi - come la tragica presunzione belga inscenata dopo l'arresto di Salah Abdeslam ha mostrato al mondo - ciò che interessa a Belgio o Francia è gestirsi da soli le cose, farsi i dispetti reciproci, non collaborare nello scambio dei dati e delle informazioni, prima ancora che degli arrestati. Quanto avvenuto a Bruxelles è la dimostrazione planetaria del fallimento totale di una gestione del terrorismo a livello di ristretti confini nazionali. Non è più possibile. Il «nemico» è dentro di noi, e non si arresta alzando le barriere alle frontiere statali, ma creando un corpo di polizia comune, tipo Fbi americano.

Creando una difesa unitaria alle frontiere dei confini europei, non tra Belgio e Francia come in maniera ridicola si è sentito nella giornata di ieri e l'altro ieri, con il sangue dei morti ancora caldo. La vittoria dell'Isis, suggellata anche martedì con una tecnica tragicamente spettacolare, rivela che il Belgio, la Francia, gli altri stati europei non sanno nulla di quanto sta accadendo nei collegamenti profondi fra terroristi, nell'organizzazione delle cellule di kamikaze, nel rifornimento di armi e denaro. I francesi non passano informazioni a nessuno, figurarsi ai cugini belgi di cui si ritengono superiori. Gli Stati Uniti si fidano soltanto del Regno Unito, l'ex madrepatria. L'Italia non ha sponde. E così Salah Abdeslam ha viaggiato tranquillamente mezza Europa, senza che nessuno si accorgesse di nulla, è stato fermato e rilasciato indisturbato in Ungheria, e dopo mesi viene arrestato di fatto a casa sua, protetto dal suo quartiere che all'arrivo della polizia vi si è scagliato contro, come la camorra e la mafia da sempre fanno nei territori che controllano.

Cento anni dopo l'inutile strage della Prima guerra mondiale sembra di rivedere la stessa cecità suicida che ha portato a milioni di morti e alla fine dell'Europa quale riferimento del mondo, in una lotta stupida e fratricida fra Paesi fratelli in nome di gelosie e primati nazionalisti. Anche oggi contiamo i morti e i feriti di una guerra che sarà lunga e sanguinosa, ma non si è capaci di andare oltre l'orgoglio e la presunzione nazionalista, non capendo drammaticamente che il mondo è cambiato, e che la lotta al terrorismo così è già persa. I primi a opporsi a una maggiore integrazione fra i servizi di intelligence sono stati proprio i francesi all'indomani del Bataclan, in nome della grandeur de la France. La nascita di una polizia federale europea con poteri sovranazionali, con una Procura europea e una direttiva antiterrorismo unitaria, è bloccata dagli stessi stati che oggi piangono i loro morti, nel trionfo della strategia jihadista di annientamento. Nessuno è disposto a cedere un pezzetto di sovranità. Le resistenze vengono dai governi, ma anche dalle magistrature, dai servizi segreti nazionali possessivi delle loro prerogative, tanto da preferire venir sconfitti da soli, piuttosto che vincere insieme.

Oggi è indispensabile avere non solo leggi comuni anche sul fronte delle indagini e delle intercettazioni, ma disporre di un vero e proprio Ministro dell'Interno dell'Unione, in grado di dare unitarietà alle azioni antiterrorismo, e rendere comunicante l'azione delle forze di polizia e dei servizi segreti. La stessa organizzazione investigativa delle procure va coordinata, come è avvenuto in Italia per la Direzione nazionale antimafia, mettendo in rete le eccellenze investigative in una strategia comune di contrasto, superando il concetto ottocentesco che la sicurezza è prerogativa degli Stati nazionali, e nemmeno consentita dai trattati dell'Unione. Fa tristezza mentre si piangono i morti sapendo che ce ne saranno chissà quanti altri ancora nelle nostre città, per le nostre strade, ascoltare stupidi proclami di guerra all'islam e di chiusura delle frontiere, quando non si è nemmeno capaci di dare vita ad un registro europeo dei passeggeri aerei, strumento indispensabile di lotta al terrorismo.

Fa rabbia constatare che si affronta il terrorismo «della porta accanto», la guerra civile di 5.000 europei con passaporto europeo, cresciuti nelle nostre scuole accanto ai nostri figli, pensando alla mobilitazione degli eserciti nazionali, invece di creare una banca-dati comune e sistematici scambi di informazioni tra istituzioni e fra paesi. È troppo facile ora listare a lutto le capitali europee, colorare i monumenti della bandiera belga o francese, ripetere che siamo tutti parigini o cittadini di Bruxelles, e poi non fare nulla per scongiurare la prossima strage. È una inerzia colpevole. O la guerra al terrore porta ad abbattere le gelosie e le divisioni europee, o la partita è già persa. Ma la responsabilità non è degli jihadisti assassini, bensì della cecità nazionalista delle elites e della classe politica europea, populisti xenofobi compresi.

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