Buster K. e i rimbalzi dell'esistenza umana

Buster K. e i rimbalzi dell'esistenza umana

di Paolo Ghezzi

U na palla umana. Uno straccio. Un fagottino acrobatico. Un bambino chewing-gum, pongo, elastico, pagliaccetto vivente caricato a molla. Un «buster», un fenomeno. Abituato fin da piccolissimo, come ricorda nell'autobiografia «A rotta di collo», ad essere usato come oggetto contundente ed espediente comico sul palcoscenico dai genitori teatranti di vaudeville, Joseph Francis «Buster» Keaton (1895-1966) - il genio della risata che non sorrideva mai - rimane uno dei grandi patrimoni dell'umanità. I suoi migliori film stanno alla pari della Gioconda o del Ponte dei Sospiri.

Lui, se sospirava, lo faceva muto, in quelle vecchie pellicole in bianconero che avevano bisogno di musica aggiunta, di scariche veloci di pianoforte male accordato, per accompagnare la velocità delle funamboliche imprese sullo schermo. Qualche giornale l'ha ricordato nel cinquantenario della morte (1° febbraio), evocando anche gli ultimi anni della sua carriera, perfettamente coerenti ai suoi inizi di teatrante, attor comico o forse no con la faccia impassibile fino alla fine: nei circhi, travestito da generale nazista in una pellicola con Franco e Ciccio ma anche in quel corto geniale scritto da Samuel Beckett, e intitolato semplicemente «Film», in cui il vecchio Buster disperato cerca invano di sfuggire all'occhio implacabile dell'obiettivo e poi ci guarda e si guarda, con il suo occhio allucinato.

Metafora della condizione umana, film angoscioso che diventa quasi il corollario di «Aspettando Godot»: attendiamo tutta la vita qualcosa, qualcuno, una novità una speranza una svolta, cerchiamo di diventare quello che già siamo, non capiamo che il nostro destino è l'incompiutezza, non ci rassegniamo a morire prima di essere riusciti a spiegarci davvero. Ma questo è l'epilogo, «triste solitario y final». BK va ricordato invece nello splendore dei suoi vent'anni, del suo volto senza età e dei suoi capolavori cinematografici, quando, elastico ancora come un bambino-palla, interpretava film surreali e catastrofici, in cui sopravviveva a disastri, crolli, naufragi, scosse elettriche, cicloni, maremoti, malvagissimi esseri umani malissimo intenzionati, solo grazie alla miracolosa plasticità del suo corpo minuto e agilissimo, figurina umana che non poteva mai morire perché incorporava un moto perpetuo e una straordinaria capacità di adattarsi alle circostanze avverse.

Ci ha lasciato un consiglio che è meglio di quello di Steve Jobs: «Think slow, act fast», «Pensa piano, agisci veloce». E quant'era fast, il Buster in azione! Lontano dai sentimentalismi alla Chaplin e anche dai sorrisi che ogni tanto Charlot concedeva, Buster scriveva con ogni film un trattatello sulla condizione umana, un piccolo manuale di ingegneria della sopravvivenza, esilarante per la meccanica geniale dei suoi movimenti senza che dovesse muovere un solo muscolo facciale.

Che salisse sul ring della boxe o scendesse come palombaro nelle profondità marine, la figurina BK raccontava la condizione esistenziale dell'uomo meglio dei libri di filosofia: un essere fragile in balia del destino, ma straordinariamente resistente e resiliente. Sopra un corpo che tutto sopporta, tutto incassa, su tutto rimbalza, «The Great Stone Face», quella faccia di pietra un po' così, quella faccia unica, impassibile invincibile irresistibile. Alla faccia delle circostanze, del vento avverso, dell'umana stupidità.

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