Parigi: in un momento in cui tutti parlano…

Parigi: in un momento in cui tutti parlano…

di Luana Silveri

...sto in silenzio, mi fermo a guardare fuori dalla finestra della cucina e cerco di allontanarmi dal rumore di fondo prodotto dalle bassezze del «La Qualunque» di turno, più o meno davvero qualunque, che sproloquia a caso dalle pagine dei giornali, dai commenti e dai diktat dei social o dai tavolini del «bar del Toni».

…sto in silenzio e non riesco a sentirmi in colpa perché non canto la Marsigliese, non appiccico la bandiera francese sul mio profilo facebook, non resto stupita dagli attentati di Parigi e mi fa rabbia sentire Hollande che afferma, con piglio napoleonico, che ora sì, siamo in guerra.

Perché cantare un inno o attaccare una bandiera serve da alibi per far crescere, coattivamente, il nazionalismo nelle masse, ma i nazionalismi sono la culla dell’idiozia di massa e riparo dall’obbligo umano di essere critici verso le proprie responsabilità nei confronti degli altri.

Perché non siamo in guerra da ora ma da sempre, l’avevamo solo delocalizzata per non vedere ogni giorno i costi umani del nostro benessere a carico di altri. Perché la guerra è il mezzo attraverso cui, insieme alle crisi economiche, siamo tenuti in scacco, sotto controllo, privati della possibilità di ragionare in modo indipendente e di costituirci luogo civile.

…sto in silenzio e mi vergogno di avere scritto sul mio passaporto, alla voce cittadinanza: italiana. Perché se è vero che i musulmani sono bastardi, retrogradi, incivili e sanguinari, allora io, da italiana, sono mafiosa, ladra, fascista, cristiana cattolica, mangio pasta e pizza e suono il mandolino.

…sto in silenzio e penso che nel terrore non ci saremo noi ma soprattutto quelli che circolano in Europa e hanno tratti somatici che ricordano origini non caucasiche.

Perché io, come tutti voi, ieri ho lavorato, preso il tram, detto al mia opinione in varie occasioni, fatto la fila alla cassa e mi sono seduta al ristorante come sempre e nessuno mi ha guardata con un’ombra di sospetto, nessuno mi ha apostrofata con rabbia ad ogni parola detta o scritta, nessuno si è mosso in modo da girarmi a largo e nessuno si è aspettato che io facessi qualcosa per dimostrare che non fossi colpevole delle morti provocate dalle truppe di «esportatori di democrazia».

In un momento in cui tutti parlano io me ne sto in silenzio e rifletto. Perché abbiamo sempre parlato di integrazione ma non ci siamo mai davvero operati per farla, nel ricco Occidente, chiunque non è manifestamente caucasico, cristiano, europeo, è sempre stato guardato come «altro» che tenta di «entrare» nelle nostre comunità perfette, mai una volta siamo stati noi a muoverci verso l’altro.

Perché ho paura della gente non dei musulmani o dei cristiani, dei nazionalisti e non dei marocchini, dei russi o dei cinesi. Perché pensiamo che la guerra si risolva con la guerra e che sia giusta e necessaria, giustificando così morti di altri come effetti collaterali, morti «nostri» come vittime innocenti.

Perché trovo di pessimo gusto schiamazzare finto dolore e partecipazione guardandosi lo spazio che c’è tra l’ombelico e i piedi senza alzare la testa per renderci conto che ha più senso guardare cosa accade oltre il nostro giardino fatato e chiuso.

Perché invece avrebbe senso pensare a soluzioni dal senso circolare e non unilaterale, perché se vogliamo davvero la pace dobbiamo accettare l’idea di rinunciare ad un pezzetto del nostro benessere per condividerlo con chi non ha mai conosciuto altro che paura, necessità di sopravvivenza e nulla.

Ma quanti di noi sono pronti a rinunciare alle cose per avere equità sociale e pace nel Mondo e non solo in Europa?

Quanti invece pensano che avere un nemico da combattere con le armi, sia sicuramente più efficace come problema e più immediata come soluzione?

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