Il piccolo Aylan e l'inerzia europea

Il piccolo Aylan e l'inerzia europea

di Pierangelo Giovanetti

L'immagine del piccolo Aylan, morto sulla spiaggia, annegato mentre cercava con la sua mamma e il fratellino di raggiungere l'Occidente e scappare dalla guerra, ha (forse) risvegliato l'Europa dal sonno e dall'immobilità cinica e indifferente che ne sta decretando la sua fine. Perché della morte del piccolo Aylan, e delle ormai migliaia e migliaia di bambini donne uomini che hanno trovato la loro tomba nel Mediterraneo, l'Europa porta una delle responsabilità maggiori. La responsabilità dell'inerzia. Non solo per la non accoglienza dei disperati in fuga dalla morte e dalla violenza, ma per l'immobilismo politico, grasso e bottegaio, che ha portato l'Europa a fare da spettatore muto e inerte di fronte al disgregarsi del mondo attorno a sé.

A cominciare dalla sponda sud del Mediterraneo, fino ai confini balcanici e tutto il Medioriente. Abituati da decenni di benessere e assenza di conflitti, gli europei si sono abbozzolati in se stessi, nella difesa di miopi interessi nazionalistici, sempre in lite antagonista e invidiosa con il vicino, incapaci di cogliere la trasformazione epocale in atto, che ora sta per travolgere l'intero continente europeo e la prosperità e la sicurezza conquistate negli ultimi 70 anni. Si sono dimostrati, di fatto, incapaci di reagire. Di essere soggetto e attore politico del proprio futuro. Arrivando a negare se stessi, preferendo non esistere come Europa.

Il corpicino del piccolo Aylan, adagiato sulla sabbia, come se stesse sognando la libertà che non ha avuto, nella tragicità di quanto sta avvenendo ha messo l'Europa di fronte a se stessa, mostrando la disumanità della sua pusillanime indifferenza. Che non è soltanto incapacità di mettere in salvo 2-300 mila profughi e migranti. Quando da soli Giordania, Libano e Turchia hanno già accolto 4 milioni di rifugiati siriani. È l'incapacità di svolgere un ruolo politico forte e unitario di fronte alle crisi internazionali che le stanno scoppiando attorno, ritenendo pigramente e distrattamente che debbano essere sempre altri ad occuparsene.

Quel tempo è finito. Le primavere arabe, l'Ucraina, la guerra del petrolio, il braccio di ferro con la Russia di Putin, ma anche lo scontro euro-dollaro hanno ormai dimostrato apertamente che l'America - sì, l'America di Barack Obama come quella di Bush prima - non è più il custode dell'Europa, e tanto meno la sua badante. Gli Stati Uniti, ormai, giocano in proprio la partita, qualunque partita, anche quella della Siria e della Libia, del Medio Oriente e del Mediterraneo. E badano alla cura dei propri interessi nazionali. Non a quelli dell'Europa e degli europei, ritenendo peraltro che il vecchio continente abbia uomini, mezzi e ricchezza per provvedervi ormai da solo.

Se masse di popoli stremati dai bombardamenti e dalla violenza dell'Isis si riversano sull'Europa, la motivazione va trovata nella guerra che non si fa nulla per far cessare, come ha risposto il ragazzo siriano a chi lo voleva marchiare sulla pelle perché indesiderato. Anzi, che si è alimentata pensando da una parte o dall'altra di ricavarne vantaggi nel braccio di ferro russo-americano che è tornato a caratterizzare questo primo decennio degli anni Duemila. Il tutto nell'assenza di una politica europea, di una volontà d'azione comune e una strategia per il Mediterraneo, la porta Sud del Continente. Di una visione unitaria e prospettica, di fronte al Medioriente e alla devastazione degli equilibri islamici figlia della sciagurata seconda guerra del Golfo e del disastro americano della «democrazia da esportare».

Se l'Europa ha da incolpare qualcuno della morte del piccolo Aylan, deve incolpare se stessa. Perché da mesi, da anni, l'Italia assediata nelle coste da «barconi della speranza» alimentati da aguzzini e speculatori libici, richiama alla responsabilità dell'intero continente nel dare una risposta organica e strutturale a tale epocale migrazione di popoli, figlia della disgregazione dell'intero sistema geopolitico del Mediterraneo e dell'Africa subsahariale. Solo con una stabilizzazione politica della sponda Sud del Mediterraneo, dando pacificazione alla Libia e alla Siria, sarà possibile fermare le milizie dell'Isis ed evitare che interi territori alle porte di casa nostra siano in balia di predoni, fanatici e guerriglieri, nel caos più totale e nell'assenza di leggi e di umanità.

Solo con un ruolo attivo e unitario dell'Europa potrà essere messa in campo una strategia in grado di confrontarsi con gli Stati Uniti e la Russia, con un coinvolgimento fattivo del ridisegno dell'intera area mediterranea, un'azione efficace, anche nella ridefinizione degli equilibri nel resto del continente africano e nel contenimento dell'Isis che sta prosperando sul caos politico causato dagli Stati Uniti (e alleati arabi) e dalla Russia nel silenzio distratto e indifferente di noi europei. È finito il tempo in cui erano altri a risolvere i problemi dell'Europa, magari avvantaggiandosi delle divisioni interne, delle piccole grandi invidie e gelosie nazionali, delle frizioni fra Paesi, dell'inconsistenza di azione comune che faceva del vecchio continente non una Grande potenza protagonista dello scacchiere internazionale, ma un aggregato litigioso di semplici gregari in corsa a chi si faceva più bello verso l'alleato americano.

L'Europa o si riappropria del ruolo che deve svolgere, o ha sancito la sua fine. Diventerà terra di conquista, di disintegrazione, di chiusure irresponsabili e miopi, magari portate avanti da chi fino a ieri faceva parte delle fiumane di profughi e rifugiati in cerca ad Ovest di libertà e di benessere, e trovava accoglienza e porte aperte, e non muri e fili spinati. Di fronte ad un rivolgimento epocale come quello in atto, muoversi in ordine sparso è un suicidio. Non siamo di fronte ad una crisi passeggera, né a piccoli assestamenti geopolitici. Occorre proprio un cambio di direzione di marcia, a cominciare dal diritto d'asilo che non può più essere scaricato sul singolo Paese, ma richiede una visione unitaria d'Europa, oltre gli accordi di Dublino.Per poi proseguire con un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne alla Ue, dato che non è più un problema del singolo Paese, oggi l'Italia, domani la Grecia, forse l'Ungheria. Riguarda tutto il continente, e tutti insieme sulla stessa barca.

Per poi passare ancora unitariamente ad un'unica politica estera, che porti l'Europa a svolgere un ruolo di pacificazione, e di graduale trasformazione economica non solo del Medio Oriente, ma anche delle nazioni dell'Africa che premono sul Mediterraneo, e che - se si rimane inerti spettatori come avvenuto finora - riverseranno nei prossimi mesi e anni milioni di uomini e donne in fuga dalla miseria sulle coste italiane, spagnole, greche, travolgendo l'intera Europa. Infine c'è bisogno di una classe politica europea, che abbia la forza e l'autorità di saper andare contro i singoli interessi statuali, e anche la propria opinione pubblica nazionale se necessario, per guidare l'Europa intera nella sfida epocale che ci aspetta.

Una classe politica cosciente che è giunto il momento di un rafforzamento decisivo dei poteri, delle risorse e delle competenze della Ue, anche sui singoli stati recalcitranti, anche contro il principio dell'unanimità che è quanto di più antidemocratico e inefficace ci possa essere. Non basta commuoversi un istante davanti alla tragica e straziante immagine del piccolo Aylan, privo di vita sulla sabbia che lambisce il nostro mare. Perché quella morte non sia inutile, e soprattutto non sia solo una delle tante in una strage infinita, deve segnare una svolta dell'Europa. Uno spartiacque tra un prima e un dopo. Lo dobbiamo ad Aylan, innanzitutto.

E a tutte le migliaia di persone che hanno trovato la morte alle porte dell'Europa.

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