Chi vince governa: è la democrazia

Chi vince governa: è la democrazia

di Pierangelo Giovanetti

Martedì scorso la Camera ha approvato in seconda lettura il disegno di legge costituzionale che abolisce il Senato elettivo, e supera il principio delle competenze concorrenti tra Stato e regioni, causa infinita e paralizzante di contenziosi davanti alla Corte. A buon punto è anche il cammino della nuova legge elettorale, l'Italicum, licenziata dal Senato in seconda lettura a gennaio.

Il cammino delle riforme costituzionali, essenziali per dare all'Italia una democrazia funzionante e in grado di decidere, dopo oltre trent'anni di bicamerali inutili e discussioni a vuoto sta arrivando a conclusione. E più ci si avvicina alla mèta, più il fuoco di sbarramento di quanti temono il superamento della «democrazia consociativa» e dell'assemblearismo parlamentare, alza i toni e agita lo spettro della deriva antidemocratica e dell'«uomo solo al comando».

In realtà, entrambe le riforme che il Parlamento sta approvando, riportano l'Italia dopo decenni di inconcludenza decisionale - causa non ultima dello sfascio in cui il Paese si trova - al livello delle altre democrazie europee. Infatti, il modello Westminster che si sta introducendo, non è altro che quello in vigore nel Regno Unito, la più antica democrazia al mondo. E l'impianto di democrazia maggioritaria, che le riforme introdotte rafforzeranno, è lo stesso attualmente in vigore in Germania, in Spagna, in Francia, e nelle maggiori democrazie al mondo. Il retroterra culturale che sta alla base di questa paura del cambiamento, pietrificando la Costituzione in un totem intoccabile quando invece gli stessi costituenti ne hanno previsto la revisione costituzionale, è l'idea che il «poter decidere» sia un pericolo e non invece un obbligo (oltre che una virtù) per chi governa.

Molto meglio, secondo costoro, un parlamentarismo di tipo assembleare, in cui nessuno riesce a prendere le decisioni, ma tutto è sottoposto al veto di questa o di quella minoranza, parlamentare o interna al partito. È il sistema consociativo dell'Italia del dopoguerra che ha visto, unico caso in Europa, l'alternarsi di 63 governi in nemmeno 70 anni, con 27 presidenti del consiglio, quando nella vicina Germania nello stesso periodo si sono alternati 8 cancellieri e 23 governi. E il risultato è sotto gli occhi di tutti, e lo si percepisce chiaramente quando una democrazia sa prendere decisioni e quando no.

Per comprendere il perché fu introdotta nella Costituzione una forma di «governo debole» e «diviso», dove il presidente del consiglio è solo un primus inter pares e, a differenza delle altre democrazie europee, non ha il potere di nominare e revocare i ministri, né di sciogliere le camere, bisogna risalire alle paure del dopoguerra. Non soltanto quelle di una classe politica reduce da un ventennio di dittatura fascista, ma soprattutto una classe politica animata da una forte diffidenza reciproca sull'affidabilità democratica dell'avversario. In altre parole, De Gasperi temeva che potesse vincere Togliatti instaurando una «dittatura comunista», e quindi spinse per un sistema di poteri dispersi e di veti incrociati. Stessa cosa temeva Togliatti, presagendo di dover perdere le elezioni, e quindi animato dalla volontà di condizionare il governo che sarebbe uscito dalle elezioni, rendendogli impossibile governare veramente.

È il compromesso di queste paure e di queste debolezze che ha prodotto il sistema di «democrazia consociativa» che ha dominato il dopoguerra, e che alimenta in taluni anche oggi spettri di autoritarismo nel codificare una democrazia in cui «chi vince, governa». Come avviene dappertutto nel mondo, tranne che in Italia. Il conto salato che il nostro Paese ha pagato per questo, tra instabilità di governi, debolezza della leadership democratica, parlamenti paralizzati da ostruzionismi e veti, riforme rimandate alle calende greche in continui passaggi fra Camera e Senato, è stato non solo ridurre l'Italia ad una nazione ingovernabile, divisa in fazioni, incapace di associarsi, coalizzarsi, trovare un interesse nazionale nelle sue decisioni. Ma soprattutto un Paese giocoforza gregario, succube delle decisioni degli altri. Perché di fronte a governi non in grado di decidere, di volta in volta hanno deciso gli altri, l'alleato americano (nelle scelte di difesa e di politica estera); l'Europa (nelle scelte economiche e di equilibrio di bilancio); i paesi più forti della Ue come Francia e Germania per quanto riguarda linee di rigore o di crescita, come pure anche di sviluppo e di indirizzo delle risorse.

Ora, in un contesto globalizzato e tecnologizzato, dove la necessità di decisioni rapide e immediate è indispensabile non solo sul piano economico e finanziario, ma anche di strategie geopolitiche, di difesa militare e di politica estera, se l'Italia vuole avere un ruolo in Europa non può più avvalersi di governi deboli e incapaci di decidere, prigionieri dei veti incrociati. Esecutivi impossibilitati a realizzare un'agenda parlamentare sottoposta al giudizio degli elettori, frenati in ogni riforma da questa o quella lobby organizzata, da questo o quel partitino dello zero virgola, determinante per tirare a campare, ma non per guidare una democrazia moderna e avanzata, e un Paese che è il secondo per industria manifatturiera in Europa e il primo per l'agroalimentare.

Ecco perché le riforme costituzionali che il Parlamento sta portando avanti, non senza tentativi di barricate, rigurgiti di conservatorismo e inopinate grida di leaderismo e autoritarismo, sono urgenti e indispensabili per fare uscire l'Italia dalla immobilità decisionale che per decenni l'ha tenuta prigioniera, e che ha permesso il trionfo dell'ingovernabilità di un popolo, dove ciascuno persegue il suo interesse perché non c'è un governo capace di perseguire un «bene comune» di cui poi risponde ai cittadini elettori.

Tra il resto in un sistema istituzionale come il nostro che non prevede una corsia parlamentare preferenziale per le proposte del governo, cioè per l'attuazione del programma che si attua attraverso le leggi, per forza di cose si moltiplicano i decreti- legge e i voti di fiducia: sono gli unici strumenti per poter governare, sfuggendo a imboscate e ricatti di questa o quella minoranza organizzata. In tutte le grandi democrazie parlamentari vige il principio di maggioranza: il partito che vince le elezioni, guidato dal suo leader che diventa leader di governo, attua il programma attraverso la maggioranza parlamentare che si è formata alle elezioni. La minoranza eletta si organizza per fare l'opposizione, controllare l'operato del governo e si struttura per vincere le elezioni successive, e non ha la sua ragion d'essere nel fare ostruzionismo e impedire di governare chi è stato eletto per farlo.

Alla stessa maniera in Germania, Spagna, Francia o Inghilterra, l'80% delle leggi sono di origine governativa, perché così funziona le democrazia. Semmai la vera battaglia da fare al più presto portandola nelle riforme costituzionali è il rafforzare le capacità di controllo dell'opposizione, magari istituendo la forma del governo-ombra presieduto dal capo dell'opposizione, e prevedendone un ruolo istituzionale ben preciso. Questo è riformismo: non impedire che il governo governi, ma individuare un ruolo all'opposizione perché ne possa essere un contrappeso. E contrastare il governo in nome di un'agenda alternativa (cioè di un elettorato alternativo) che lotta per diventare maggioranza alle elezioni successive. Perché è agli elettori che il governo (e l'opposizione) deve rispondere, non alle oligarchie dello schieramento contrapposto, e tantomeno del proprio.

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