Dostoevskij e Ronconi

Dostoevskij e Ronconi

di Vincenzo Passerini

Ho avuto la fortuna di assistere al teatro Argentina di Roma alla messa in scena dei «Fratelli Karamazov» di Dostoevskij da parte del Teatro di Roma con la regia di Luca Ronconi, tra il febbraio e marzo del 1998. Due serate di quattro ore ciascuna. Un’impresa gigantesca, che solo un cultore geniale delle imprese teatrali impossibili come Ronconi poteva realizzare. Ronconi è morto sabato scorso 21 febbraio 2015 a 82 anni. Lo ricordo con alcuni appunti, disordinati e del tutto incompleti, di quel memorabile avvenimento che non volli perdere per nulla al mondo, essendo per me i «Karamazov» il più grande romanzo di tutti i tempi e un punto di passaggio e di arrivo (e di ritorno, un continuo ritorno) per tutti quelli che leggono libri.

«Ottimo l’avvio con la complessa definizione del territorio umano risolta bene da Ronconi. Si definiscono i personaggi e gli intrecci complicati tra di loro. Una volta delimitato il territorio in estensione, Dostoevskij scava in profondità.

La parola sovrana, la scena nuda (in tutto: tavoloni, panche, una scala, una tavola da sala), nessun effetto di luci.
Non mi è piaciuto per nulla lo starec (monaco) Zosima (Antonio Piovanelli). Caricatura. Eppure Ronconi deve mettergli in bocca parole non caricaturali; è l’altro mondo, è l’altra vita, è l’altro modo di vivere che Zosima rappresenta; ma sempre realistico, non improbabile.

Zosima è un po’ maschera fissa, il volto è sempre uguale, quasi recitasse una parte, mentre Zosima viene da una vita tormentata e la santità è per lui una conquista difficilissima, non un approdo di comodo.

Ronconi dice nell’intervista pubblicata in uno dei volumetti stampati per lo spettacolo che i personaggi di Dostoevskij sono letti attraverso il filtro di noi moderni, facendo coincidere il concetto di moderno con quello di scettico e a-religioso: un po’ datata come visione, mi pare.

Il dialogo secco tra Ivan (Giovanni Crippa), il padre (Corrado Pani) e Alesa (Daniele Salvo): credi in Dio? No, dice Ivan e lo argomenta; sì, dice Alesa (e così dell’immortalità dell’anima). Ma Alesa lo dice senza la convinzione di Ivan: è un po’ imbambolato. L’Idiota è innocente, non imbambolato; è l’innocente che non si corrompe mai. Alesa è l’innocente destinato alla corruzione e poi alla resurrezione; l’innocente che avverte in sé i segni della corruzione, i primi segni, ma che è ancora innocente.
Già, la tragedia della corruzione; Alesa è l’Adamo prima della corruzione (poi il romanzo avrebbe dovuto continuare per narrare la caduta e la resurrezione).

Splendido il monologo di Dimitri con Alesa. Secondo me Dimitri (Massimo Popolizio) è l’attore migliore stasera, meglio del Corrado Pani, il padre, eccellente, ma a volte un po’ macchietta, poco consistente nella sua depravazione. Più simile alla macchietta che nella tragedia alleggerisce la tensione. Lui e Smerdjakov si contendono il ruolo di buffoni di corte. Il riso e la tragedia, il ridicolo. Dostoevskij: come siamo ridicoli! Lui diventa quasi simpatico nella sua depravazione, così gioiosamente vissuta; ma non è così in Dostoevskij. Il ridicolo della depravazione non ha niente a che fare con il giocoso e l’ilare.

Smerdjakov (Riccardo Bini), molto bravo. E’ molto shakesperiano come personaggio. È il reietto che dice in faccia le verità più brutte, che fa le domande più imbarazzanti, che scova con logica devastante le illogicità di certi assunti. Ivan turba, fa pensare, inquieta; Smerdjakov irride, demolisce. È sarcastico, è trionfante nella sua verità non riconosciuta, rifiutata, ributtante. Partorito nello squallore dalla demente violentata dal vecchio e che muore mettendolo al mondo.

Una umanità perduta se non ci fosse il Cristo, sia egli Dio o non sia: dovessi scegliere tra la verità e Cristo, sceglierei Cristo, dice Dostoevskij. Se non ci fosse la dolce figura di Cristo…Siamo questo abisso di perdizione e di inganno, di povere, piccole e gigantesche abiezioni; misere cose siamo, che ci perdiamo dietro un nonnulla. Poi arriverà la grande figura dell’Inquisitore a gridare: ma se siamo così, e Tu sai che siamo così, perché ci hai chiesto di essere così grandi? Perché ci hai voluto angeli? Se siamo dei poveri diavoli?

Massimo De Francovich recita bene l’Inquisitore, ma la parte è troppo grande per lui, forse inevitabilmente. L’Inquisitore è un personaggio tragico, è tormentato, è appassionato, è divino e diabolico. De Francovich è un po’ scolastico.

Giovanni Crippa era più da Alesa che da Ivan; è bravo, ma un po’ troppo leggero e i pensieri di Ivan sono troppo pesanti per lui; è improbabile, anche se fa del suo meglio, e non tradisce.
Finale nella gioia, con Alesa e Zosima che inneggiano alla gioia e all’amore colpiti da due fasci di luce. Sì, bello, anche se troppo lapidario.
Mi sembra che la seconda serata salvi padre Zosima, salvi, non lo reintegri in pieno nel suo ruolo. Ronconi fa quello che può: non è Tarkovskij. Non sente la spiritualità dostoevskijana, lo si capisce. Ne avverte l’esistenza, ma non ne capisce la portata. E’ il dramma, il conflitto che gli interessa.

Ma la cultura cattolica italiana non è in grado di produrre un regista come Ronconi che fa Dostoevskij. Tanto meno un Tarkovskij o un Bresson. La cultura laica produce qualcosa, ma solo parzialmente. Ma non ha senso prendersela con la cultura laica. I cattolici hanno da tacere e imparare.
Forse il nostro mondo morale, intellettuale, estetico si è ristretto. Mancano anche gli attori. L’Italia di questi film, di questa tv, di questa stampa, di questa politica può forse aspirare a produrre un Tarkovskij? L’Europa occidentale avrebbe potuto produrre un Tarkovskij? No. Forse ci vorrebbe uno come lui per darci un Dostoevskij veramente pieno. C’è una nostra aridità spirituale che ci sta divorando, inghiottendo. Atrofizzazione. Ne deriva che Dostoevskij sta facendosi lontano come Dante? Che presto non riusciremo più a leggerlo?  

Il linguaggio secco, visivo, veloce atrofizza i muscoli cerebrali e spirituali delle giovani generazioni.
La tv tratta gli italiani da bambini: quanto nobiltà potrebbe trasmettere se li credesse nobili!
Teatro pieno, anche giovani, poca eleganza, molta attenzione».
(Roma, febbraio-marzo 1998)

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