Il capro espiatorio non serve

Disastro azzurro ai Mondiali di sci: perché?

di Luca Perenzoni

I Mondiali di Vail sono finiti male per l’Italia e non appena assegnata l’ultima medaglia d’oro a JB Grange è iniziata la caccia al capro espiatorio.
Il Direttore Tecnico non ha personalità. Il Presidente è troppo invadente nelle scelte tecniche, un dt de facto. Gli atleti sono svogliati, i tecnici migliori sono andati all’estero oppure cacciati dal Presidente-tecnico di cui sopra.

Insomma, la caccia alle streghe. Lo zero fa sempre male, su questo siamo d’accordo. Ma anche la necessità di trovare il Colpevole. Perché, che senso ha?

Fino alla partenza per Vail la stagione italiana era stata pressoché ottimale: tre atleti capaci di vincere come Dominik Paris, Stefano Gross ed Elena Fanchini (dopo ben 10 anni), molti podi (Paris, Gross, Brignone, Merighetti) e diversi piazzamenti interessanti, forse uno dei migliori inverni da un po’ di tempo, nonostante qualche acciacco di troppo: la schiena di Innerhofer, il tendine di Mölgg, il ginocchio del nostro Luca De Aliprandini e di Sofia Goggia e così via.

Poi si arriva in Colorado e le cose cambiano: Paris litiga con una curva che proprio non digerisce e che gli “costa” due possibili medaglie. Nani fa quello di cui oggi è capace e chiude sesto, gli slalomisti ci provano ma sbagliano (capita, chiedete a sua maestà Hirscher…), Brignone incappa in un errore sciocco (ecco, qui qualcosa di meglio si poteva quanto meno provare a fare), la Merighetti con una mandibola tenuta insieme dalle viti si presenta e finisce ottava. Risultati lontani dal podio, alcuni deludenti. Impossibile negarlo. Ma fa parte dello sport: a vincere è uno, sul podio salgono in tre e in queste occasioni la fortuna è un ingrediente che non può mancare nell’impasto perfetto. Ma è allo stesso tempo ingrediente che non si coltiva né si impara.

L’impressione, a mio vedere, è che l’Italia si sia presentata a Beaver Creek nelle condizioni migliori per fare bene per l’ottimo lavoro svolto, ma molto - se non tutto - è andato nel verso sbagliato. Analizzando con un po’ di buonsenso e di giusto distacco, se proprio si dovessero indicare gli aspetti critici della trasferta statunitense mi verrebbero in mente tre passaggi:

1) la rinuncia al Team Event. Per carità, l’Italia c’era ma con una formazione di fatto rinunciataria per la scelta degli atleti, non tanto per il loro impegno. Questo tipo di parallelo è dedicato a slalomisti / gigantisti che abbiano nella rapidità il loro punto forte. Schierare discesisti o supergigantisti non è la scelta più azzeccata.

2) il gigante donne. Per pista, tracciato e condizione fisica l’errore di Brignone su quell’ormai celebre dosso è il peccato più grande a livello individuale del Mondiale. Il tempo per analizzare le uscite altrui c’era in abbondanza ed i tecnici avrebbero dovuto catechizzare a dovere la carabiniera. Il giorno dopo Hirscher ha piazzato una bella frenata per non sbagliare e l’argento l’ha portato a casa. Imparare, imparare. A volte basta un briciolo di umiltà.

3) Lo slalom uomini. La tracciatura era alquanto originale, tutti d’accordo. Ma era la stessa per tutti e se c’era un punto in cui non si doveva sbagliare era proprio quello che ha tradito Gross. Razzoli ha fatto tutto bene, poi è scivolato nella necessità di spingere nel pianoro: un pizzico di fortuna e sarebbe stato alle spalle di Hirscher a metà gara.

4) La velocità maschile. Paris era atteso al colpaccio, due anni dopo l’argento di Schladming. La condizione fisica c’era visto che soli 10 giorni prima aveva rischiato la doppietta sulla Streif. Ma quel curvone proprio non l’ha digerito: quattro o cinque discese, tra prove e gare varie ed altrettanti errori. Un feeling mai nato e che è diventato via via sempre più penalizzante giornata dopo giornata. Se per assurdo nella prima prova tutto fosse filato liscio, probabilmente oggi Paris sarebbe in Val d’Ultimo con un’altra medaglia da lucidare.

Quattro momenti clou che hanno segnato la debacle. Di questi uno è imputabile alla struttura tecnica (Team Event), d’accordo; il secondo è stata una questione tattica gestita male (fifty-fifty tra tecnici e atleta), il terzo un errore nel momento peggiore e la quarta una situazione contingente. Per il resto, in tutta franchezza, era difficile aspettarsi - obiettivamente - altre chance di medaglia, se non per “botte di culo” (detto in termini tecnici) o ammutinamenti altrui.

Le due-tre gare giuste sono andate male, peccato. Ma per fare bene allo sport (ed anche per viverlo bene), più che cercare a tutti i costi il colpevole a rischio di sparare nel mucchio, sarebbe più opportuno ragionare in senso lato e non assegnare al solo Mondiale il ruolo di giudice unico della bontà del lavoro fatto.

Fino al 29 gennaio, tutti contenti, si diceva.

Ma nello slalom donne, arrivare nelle 10 era comunque un buon risultato; Innerhofer era già incostante, gli slalomisti ogni tanto inforcavano, Nani non era mai salito sul podio, Paris era l’unico antagonista di Jansrud (a sua volta senza podio in discesa e superG), Gross il re di gennaio. Fino al 29 gennaio Roda era un presidente degno, capace di riassettare i conti in rosso della federazione e Rinaldi un buon dt. Ora si vorrebbero le dimissioni.

Perché?

Perché mancano i giovani? Purtroppo De Aliprandini e Zingerle sono a casa a leccarsi le ferite, dietro qualcosa si muove, purtroppo con i tempi pacati della maturazione tipica degli italiani. Lo slalom femminile latita e su questo si è d’accordo, ma proprio quest’anno (tardivamente? forse sì) si è impostato un progetto di crescita ad hoc rivolto alle più giovani, ora ci vuole pazienza, senza dimenticare come la più giovane slalomista nostrana, Michela Azzola, sia ko. A Vail si è vista un’ottima Bassino (classe ’96, non dimentichiamolo), Nani ha confermato un discreto potenziale, lo stesso Paris ha 25 anni: c’è materiale per diversi anni senza fare tragedie. A patto di non smettere di lavorare con i giovani.

Perché non c’era l’ex dt Ravetto? Il tecnico piemontese ha accompagnato l’italia nelle due ultime edizioni iridate e a Sochi raccogliendo tante soddisfazioni, poi nell’estate non ha trovato l’accordo (programmatico ma anche economico) con la Federazione. Ci sta, ma come in tutte le cose quando non si raggiunge un accordo significa che da entrambe le parti c’erano dettagli da limare. Era conciliabile il prezzo di un vincente come Ravetto nel quadro economico federale? Forse sì, ma a patto di quali rinunce?

Perché non sono arrivate medaglie? Lo zero fa male, ma lo stesso era successo sempre a Vail nel ’99 (Compagnoni, Rocca, Ghedina, Kostner) e addirittura nell’89 (Tomba e compagni) con personaggi di indubbio profilo incapaci di salire sul podio sulla stessa neve che - prima e dopo - li aveva visti protagonisti anche di vittorie tra Park City, Aspen, Vail e Beaver Creek, sempre in Colorado. Proprio come al giorno d’oggi.

E allora cosa non è andato? Semplice, la sconfitta fa parte dello sport e a volte, ammetterlo senza voler trovare il colpevole a tutti i costi potrebbe servire a vivere con meno ansia le giornate negative. Lo zero deve essere occasione di analisi, di presa di responsabilità, non solo momento di accusa reciproca o di caccia alle streghe. A nessuno piace arrivare dietro ed i presupposti per fare bene c’erano tutti. Non vuole essere una giustificazione, anzi, ma sparare nel mucchio nuoce gravemente al movimento: non si cercano scuse - fanno solo danni - ma allo stesso tempo deve essere riconosciuto il merito di chi, fino al 29 gennaio, ha fatto tutto bene. Purché ora si torni a lavorare. Tutti ed insieme: le divisioni rallentano.

Poi a fine stagione ci si accomoderà ad un tavolo e si potrà discutere e agire di conseguenza.

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