Il frigorifero... e poi?

Il frigorifero... e poi?

di Francesca Baraldi

A volte ci troviamo davanti al frigorifero senza uno specifico motivo: cosa ci ha portato lì, se non una fame «nervosa»,  cioè  una ricerca di cibo che non nasce da un bisogno fisiologico, bensì da un’emozione positiva o negativa? Ci indirizziamo al cibo nel tentativo di placare/allentare una  tensione negativa o esaltare un momento positivo, guidati dalla mente e dal cuore. Al cibo in questo caso viene attribuito un significato psicologico, estraneo alle necessità puramente biologico-funzionale del corpo.

Diversa è la fame biologica, che si manifesta quando si abbassano le energie a disposizione del nostro corpo : lo stimolo deriva da un bisogno concreto, causato da un digiuno prolungato, da un importante sforzo fisico o mentale  e lo stimolo svanisce con la sazietà data dal cibo.

Tornando alla fame «nervosa», il cibo associato al soddisfacimento «immateriale» si sviluppa nella prima infanzia, quando ad esempio nell’allattamento il neonato soddisfa uno stimolo fisiologico, ma contemporaneamente riceve soddisfazione nel sentirsi protetto e amato. Anche i dolcetti che i bambini ricevono come premio per comportamenti virtuosi, magari insieme a manifestazioni di affetto e di apprezzamento, associano cibo e significato psicologico, così come la privazione di dolciumi (o il fatidico, forse ormai desueto «a letto senza cena») associa negativamente cibo e comportamento.

Gli adulti hanno ben presente i cibi  dolci o salati  che possono lenire i momenti di difficoltà o esaltare quelli felici. Ma come la mettiamo con il nostro benessere? A lungo termine, l’abitudine di mangiare cose che appagano il nostro cervello e che aiutano a superare momenti emozionali porta all’aumento di peso incontrollato fino all’obesità. Molti  fallimenti dei regimi nutrizionali ipocalorici e comunque restrittivi sono originati da «diete» che  si basano sul calcolo dei fabbisogni calorici, e non tengono conto degli aspetti psicologici della persona e del fabbisogno emozionale.

Riferiamoci alle «diete»: come conciliare la parte razionale che ci richiama al rispetto delle  regole con quella inconscia che ci induce in tentazione? A parer mio il primo passo è acquisire consapevolezza della  coesistenza di entrambe le parti, e che quella irrazionale non va soffocata o repressa, ma deve essere ascoltata e soprattutto accettata. La «trasgressione» una tantum, se aiuta a superare momenti particolari, non va vissuta con senso di colpa, perché si distruggerebbe anche il positivo che la trasgressione ha dato. La consapevolezza è il primo passo per accettarsi: accettare le nostre emozioni, quello che siamo per poter esprimere davvero quello che vogliamo essere.

Analizziamo quindi il significato del termine dieta che è utilizzato spesso in modo improprio, associato com’è ad un regime nutrizionale ristretto, quasi punitivo, da attuare  per un periodo limitato e finalizzato a perdere i chiletti di troppo. In realtà  il termine dieta deriva dal greco diaita, e vuol dire stile di vita: lo stile di vita è un insieme di abitudini che riguardano l’alimentazione, ma anche altri aspetti dell’esistenza, come la capacità di gestire lo stress quotidiano e una vita frenetica di relazioni ed impegni. Quindi la dieta dovrebbe essere un insieme di abitudini che mettiamo in pratica tutti i giorni, un regalo che ci concediamo per il nostro benessere, per trovare un equilibrio che ci consenta di stare bene ed essere felici. La dieta quindi diventa anche uno strumento da utilizzare per far convivere la parte razionale della nostra mente con l’inconscio: si possono infatti imparare delle strategie da attuare per non trovarsi davanti al frigo o alla dispensa senza motivo, guidati da emozioni che non riusciamo a gestire perché non siamo abituati a riconoscerle  o ad accettarle.

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