La storia di Michele, che parla 7 lingue e si è laureato a Stanford

di Andrea Coali

NB: avviso sin da ora voi lettori che questo post è piuttosto lungo. Ma vi avviso anche del fatto che una lettura è fortemente consigliata, perché la persona che conoscerete nelle prossime righe ha veramente qualcosa di speciale.


Ecco l'incredibile storia di Michele Groppi. Chiacchierare con Michele è stata una di quelle esperienze che ti lasciano il segno. Le nostre strade si sono incrociate più volte nel corso di questa stagione poiché abbiamo disputato, da avversari, numerose amichevoli, ma è grazie ad un mio compagno di squadra che sono venuto a conoscenza di che persona straordinaria sia questo ragazzo di 27 anni. E sono sicuro che, dopo aver letto questo pezzo, lo apprezzerete pure voi.


Michele Groppi nasce a Genova nel 1986 e già da piccolo la pallavolo entra a far parte della sua vita, dato che la madre è stata una grande campionessa peruviana. La vita di Michele fino ad oggi si è divisa tra due impegni principali: lo sport e lo studio. Ma entrambi portati avanti a livelli per molti irraggiungibili. Inizio col dirvi che quest’anno ha vinto Coppa Italia e Campionato di Serie A2 con la sua Tonazzo Padova e contemporaneamente sta partecipando ad un dottorato di ricerca in Studi della Difesa e antiterrorismo presso il King’s College di Londra (ovviamente a distanza).


Ma cominciamo dalle basi. Michele ottiene la maturità linguistica con il massimo dei voti a Modena, mentre contemporaneamente era membro delle compagini giovanili della squadra canarina oltre ad essere nel giro della nazionale italiana juniores. Un infortunio che lo costringe a saltare una competizione internazionale con la maglia azzurra lo porta però a riflettere più a fondo sul suo futuro: puntare tutto sul volley o cominciare a intraprendere anche un serio percorso universitario? Sfruttando un contatto della madre, prova la carta americana. In America, come molti film ci insegnano, lo sport e lo studio vanno di pari passo all’interno dei college: gli sportivi sono incoraggiati a portare avanti entrambe le cose e l’istituto li aiuta nel loro difficile compito. Solo che Michele non sceglie un’università qualunque, ma prova ad entrare a Stanford, forse l’ateneo migliore del mondo.


Nel 2005 quindi tenta i test di ammissione: su centomila candidati ne vengono ammessi solo 900. E Michele è uno di quelli.
A Stanford frequenta il corso di laurea in Relazioni Internazionali e nel contempo gioca per la squadra del college: “All’inizio ho avuto molte difficoltà di adattamento, in primis per la lingua: un conto è parlarla a scuola in Italia, un altro è viverla ogni ora della tua giornata. – mi racconta Michele – Poi l’attività è completamente diversa dall’Italia. La preparazione sportiva inizia con settembre e il campionato solo a gennaio… e si gioca, come in NBA, due volte a settimana. Coniugare il tutto con lo studio non è stato facile, ma lì le università agevolano gli sportivi a differenza delle nostre. Basti pensare al fatto che ho dato tre esami in aereo e due in trasferta! C’è grande collaborazione tra staff tecnico del team e corpo docenti”.


Come è facile intuire, l’esperienza di Michele è stata a dir poco fantastica. E se pensiamo che è stato il primo giocatore italiano a laurearsi a Stanford, tra l’altro col massimo dei voti, è facile capire la particolarità della sua storia.
Nel 2009/2010 però fa ritorno in Italia, rifiutando anche interessanti proposte di lavoro all’estero, per giocare tra le fila della Marmi Lanza Verona in serie A1. Quando Michele mi ha detto ciò, mi è venuto spontaneo chiedergli: ma chi te l’ha fatto fare? E la sua risposta mi ha letteralmente impressionato: “Per me la pallavolo è vita. Le emozioni che io provo quando scendo in campo, che sia allenamento o partita, non le provo da nessun’altra parte: io non riesco a immaginare una mia giornata senza il volley ora come ora. La pallavolo è una scuola di vita: non sarei quello che sono adesso se non avessi imparato a coniugare i miei impegni. Questo sport è lo sport di squadra per eccellenza: in campo dipendi direttamente dal tuo compagno e viceversa. Si crea un rapporto di intimità inesistente in altri sport. Giocare mi ha insegnato a sacrificarmi, a stare in società, a migliorarmi giorno per giorno alzando continuamente la mia asticella del rendimento. Non lo faccio per i soldi, lo faccio solo per la passione. E finchè posso coniugare questa passione col mio studio e lavoro, continuerò a farlo”.


E così fa ancora oggi Michele. Ma andiamo avanti, nell’estate del 2010 parte per Israele dove compie uno stage preso il Centro Antiterrorismo di Herzliya e produce un dossier sulla Comunità Musulmana Italiana. La stagione 2010/2011 invece lo vede protagonista tra le fila del Carige Genova in Serie A2. Finito il campionato decide di privilegiare lo studio: Michele parte nuovamente per Israele, dove sostiene un Master in Antiterrorismo e Sicurezza Nazionale, anche questo concluso con la lode, e contemporaneamente gioca nel massimo campionato israeliano di pallavolo. L’anno seguente, mentre completa il suo master a distanza, gioca a Reggio Emilia sempre in Serie A2.


E infine giungiamo alla stagione corrente: Michele gioca per Padova e nel frattempo compie un percorso di Dottorato con lo sviluppo di una tesi che gli richiederà almeno due anni di lavoro. “Si tratta di un lavoro su base nazionale riguardante la sicurezza nazionale relativa soprattutto al terrorismo di matrice islamica. È un percorso lungo che mi porterà a raccogliere un sacco di dati in molte città italiane. È un lavoro unico nel suo genere che spero possa servire in un futuro”.


Mentre chiacchieriamo al telefono, Michele sta traducendo uno dei suoi lavori di ricerca dall’inglese all’italiano dato che gli sono stati richiesti dal CEMISS (Centro Militare di Studi Strategici). Se pensiamo che poi parla 7 lingue, viene ancora più spontaneo chiedersi cosa ci faccia una “testa” del genere in un campo di pallavolo: ma lui ha le idee ben chiare per il suo futuro. “Dal punto di vista pallavolistico è ancora presto per parlare della prossima stagione. Però ho intenzione di giocare almeno un altro anno e continuare i miei studi di Dottorato. Quest’estate sarà molto intensa perché dovrò compiere molte ricerche e sondaggi per la mia tesi che, come detto, completerò nel giro di due anni. Ma la pallavolo deve restare una costante della mia vita”.


Ad un ragazzo con un bagaglio simile mi viene spontaneo chiedere un consiglio: cosa dire a chi studia e gioca nello stesso momento? “Innanzitutto bisogna prendere coscienza – risponde Michele – che fare le due cose assieme non è assolutamente semplice e richiede grande impegno. Ma farlo nobilita in tutto e per tutto anima e corpo di un ragazzo. Il coniugare le due cose deve essere visto non come un peso, ma come la pienezza dell’attività sia fisica che scolastica: va capito che non può esistere l’uno senza l’altro. Il consiglio è di continuare, finché possibile, a portare avanti entrambe le cose. Poi ovviamente si arriverà ad un bivio: c’è chi potrà avere maggiori stimoli dal punto di vista lavorativo/scolastico e deciderà di privilegiare quello e chi viceversa avrà più soddisfazioni dallo sport. Ma questo è un discorso più avanzato e che va fatto su base individuale”.


Per concludere questa lunga chiacchierata, ho chiesto a Michele se non sia un’utopia il pensiero di esportare il modello universitario americano in Italia. “Sarebbe il mio sogno, – afferma lui – ma ora come ora è impossibile. E questo perché in Italia manca la mentalità: siamo un paese dalla mentalità vecchia, anche e soprattutto nel mondo universitario. Poi ci mancano i fondi per realizzare un progetto del genere. Il mio sogno nel cassetto in realtà sarebbe quello di creare un centro per studenti di relazioni internazionali focalizzato sull’antiterrorismo e la diplomazia, cosa che sarebbe unica nel suo genere nel nostro paese. Il nostro sistema infine ha molti aspetti positivi, ma dovremmo essere bravi a carpire anche quelli provenienti da altre realtà. Per quanto riguarda invece il rapporto con lo sport, anche qua è una questione di cultura. Bisognerebbe partire dalle basi: sin dalle elementari i professori dovrebbero incentivare gli alunni a praticare un sport e gli allenatori dovrebbero assicurarsi che i ragazzi si impegnino anche a scuola. Bisognerebbe attivare delle sinergie che ora non ci sono, poiché fare sport in età giovanile aiuta moltissimo.”


Con questa ultima affermazione si chiude la mia chiacchierata con Michele, a cui va il mio più grande augurio per una carriera pallavolistica, ma soprattutto lavorativa, il più rosea possibile.

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