Votare è un diritto, non perdiamolo

Siamo in dirittura d'arrivo. Tra pochi giorni gli italiani sono chiamati a dare il voto al termine di una competizione elettorale, condotta senza esclusione di colpi, che, a parere molto diffuso, è la più delicata del dopoguerra, per la grave situazione economica, civile e sociale in cui versa il Paese in questi ultimi tempi; ed alle adeguate risposte quindi che chi vincerà dovrà avere la capacità di dare alla collettività. Orbene mi capita di frequente di imbattermi in persone che esprimono la volontà di non votare; alcuni perché addirittura, inspiegabilmente e oserei dire stupidamente, del tutto disinteressati al voto, altri per una forma di protesta, di denunzia e ribellione e talvolta addirittura disgusto verso una classe politica, incapace di dare una dignitosa risposta alle esigenze del bene comune

di Pietro Chiaro

Siamo in dirittura d'arrivo. Tra pochi giorni gli italiani sono chiamati a dare il voto al termine di una competizione elettorale, condotta senza esclusione di colpi, che, a parere molto diffuso, è la più delicata del dopoguerra, per la grave situazione economica, civile e sociale in cui versa il Paese in questi ultimi tempi; ed alle adeguate risposte quindi che chi vincerà dovrà avere la capacità di dare alla collettività. Orbene mi capita di frequente di imbattermi in persone che esprimono la volontà di non votare; alcuni perché addirittura, inspiegabilmente e oserei dire stupidamente, del tutto disinteressati al voto, altri per una forma di protesta, di denunzia e ribellione e talvolta addirittura disgusto verso una classe politica, incapace di dare una dignitosa risposta alle esigenze del bene comune.


Abbiamo così il «partito» dell'astensione, che incombe minacciosamente sul risultato delle prossime elezioni. Si parla della possibilità di un 40% di aventi diritti al voto, che, sino ad oggi, hanno deciso di disertare la cabina elettorale.


È certo che nessun partito, tra quelli in lizza, raggiungerà tale percentuale, sicché, in virtù del premio di maggioranza, previsto dal pessimo «porcellum», i facenti parte della schiera degli astensionisti, avrebbero diritto, paradossalmente, ad un non governo del Paese! Ovviamente questo è un assurdo laddove vi è un contesto sociale, dove vanno necessariamente dettate le regole per la convivenza, sia in rapporto alle esigenze individuali - regolamento dei diritti e dei doveri - che di organizzazione e di finalità collettive. Insomma pare addirittura banale evidenziare che un popolo non può fare a meno di chi lo governi.


Ecco per quale motivo da sempre sostengo che astenersi dal voto è un non senso, perché significa abdicare al proprio diritto di cittadino, che, attraversa il voto, esercita quella sovranità, di cui, in una democrazia, il popolo è depositario. Ed infatti la nostra Costituzione, nel suo secondo comma dell'art. 1, sancisce solennemente: «La sovranità appartiene al popolo», che la esercita ancorché «nelle forme e nei limiti della Costituzione» stessa.


L'esercizio del voto caratterizza l'assunzione della status di cittadinanza; attraverso lo stesso si va ad eleggere chi si ritiene più idoneo a rappresentarci nell'ambito parlamentare e quindi di governo.
È il voto che ci spoglia della veste di suddito per assumere quella di civis. La pienezza della sovranità popolare è stata per noi conquista abbastanza recente, se si considera che il suffragio universale, con estensione del diritto di voto anche alle donne, si è avuto solo nel 1946, quando siamo stati chiamati a scegliere tra monarchia e repubblica; basti considerare che solo nel 1919 esso diritto di voto era stato esteso a tutti gli uomini maggiorenni! Teniamocela stretta detta sovranità! Ordunque: che senso ha oggi abdicare a tale storica conquista? Che senso ha lasciare solo a chi vota il potere di scelta di chi ci deve governare, visto che come abbiamo evidenziato, un governo è comunque ineludibile? Non è bene che, attraverso l'informazione, lo studio, la riflessione, la valutazione dei programmi offerti ( basta andare su internet), anche se per quel poco che viene proposto, si pervenga alla fine ad un orientamento con la scelta di un candidato che si ritiene comunque più accettabile, ancorché non del tutto rispondente alla figura di politico auspicabile?


Non a caso i nostri padri costituenti convennero alfine nello stabilire che votare risponde ad un «dovere civico» (art. 48). Si discusse se aggiungere o meno l'aggettivo morale, per rafforzare quel dovere, ma alfine si ritenne che tale definizione diventava troppo impegnativa. Rimane il fatto che quel «civico» ricorda il dovere di chi è cittadino in quanto tale e partecipe di una collettività, cui deve contribuire con la sua presenza nell'agone politico. Fu Costantino Mortati, forse il nostro massimo costituzionalista, a far presente che esso concetto di «civico» contiene in sé quello morale, nel senso che il richiamo etico rafforza nel cittadino la convinzione di qualcosa che investe la qualità e la funzione morale dell'uomo. Si è poi molto discusso circa la obbligatorietà giuridica o meno del voto, con possibilità di sanzione, come pure fece il legislatore con l'art. 90 del t.u. 5.2.1948 n. 26 per la Camera e con l'art. 25 della l. 6.2.1948 n. 29 per il Senato (iscrizione in un elenco esposto per 30 giorni all'albo comunale con menzione del non aver votato per un periodo di 5 anni, oltre alla iscrizione nel certificato di buona condotta); si è infine ritenuto che appare più significativo rimandare ad un valore meramente etico e di non giuridica doverosità, con disapplicazione della sanzione, anche per presunto contrasto con il principio di libertà. Ma resta l'imprenscindibile dovere civico e «morale».


La politica fa parte di noi, in quanto necessari soggetti della polis, come civis. E il cittadino è tale se vota. Altrimenti resta, abdicando all'esercizio della propria sovranità, suddito, delegando agli altri votanti, ai cittadini, la scelta di chi e come ci governerà. Leggiamo, sentiamo, guardiamo, riflettiamo, meditiamo, vagliamo ed infine: votiamo. Forse così riusciamo ad avere anche una classe politica migliore. Gli assenti sono sempre perdenti e non hanno diritto di lamentarsi.


Pietro Chiaro
Già magistrato di Corte d'Appello

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