Veltroni, vecchi politici e ricambio obbligato

Ben venga la decisione di Veltroni, a cui dovrebbe immediatamente seguire lo stesso gesto da parte di Massimo D'Alema, di Rosy Bindi, di Franco Marini, di Livia Turco, per restare solo nel campo del centrosinistra, e di quanti come loro sono in Parlamento da 20, 25 anni e più, passando tranquillamente dal Pci e dalla Dc al post berlusconismo, come se tutto il mondo fosse cambiato, tranne loro

di Pierangelo Giovanetti

Walter Veltroni ha peró detto una grande verità: L'età anagrafica non è da sola garanzia di rinnovamento o conservazione. L'esperienza nella gestione di un Paese spesso è garanzia di serietà ben più della foga di cambiamento. Dai tristi vent'anni berlusconiani appena trascorsi dovremmo aver pur imparato qualche cosa. Il «nuovo» non è di per sè sinonimo di miglioramento!


La decisione di Walter Veltroni di non ricandidarsi più al Parlamento costituisce un segnale forte e importante, per il Pd e per tutta la politica italiana. Veltroni è sulla scena politica da oltre 35 anni, con incarichi di primo piano nel partito (il Pci prima, Pds Ds e Pd dopo), nel governo (vicepremier di Prodi), nelle amministrazioni (sindaco di Roma), nelle cinghie di trasmissione del partito (la Fgci e l'Unità, di cui è stato direttore).


Ha iniziato nella Prima Repubblica, è passato attraverso la Seconda (candidato premier nel 2008), e adesso si affaccerebbe sulla scena della Terza, transitando senza soluzione di continuità dal 1976 quando fu eletto consigliere comunale a Roma nelle liste del Pci ad oggi. Sono pochi i Paesi al mondo, e tra questi la Cina comunista come prima l'Urss sovietica, che possano vantare primati di longevità politica come in Italia.


Ben venga quindi la decisione di Veltroni, a cui dovrebbe immediatamente seguire lo stesso gesto da parte di Massimo D'Alema, di Rosy Bindi, di Franco Marini, di Livia Turco, per restare solo nel campo del centrosinistra, e di quanti come loro sono in Parlamento da 20, 25 anni e più, passando tranquillamente dal Pci e dalla Dc al post berlusconismo, come se tutto il mondo fosse cambiato, tranne loro.


È vero che il «nuovo» non è per forza garanzia di miglioramento. Silvio Berlusconi e molti dei fenomeni «nuovi» della Seconda Repubblica, sono stati tutto fuorché un miglioramento qualitativo della politica. Quindi il «nuovismo» non può essere un programma di governo, e nemmeno il criterio dell'anagrafe è sufficiente per valutare un buon politico da uno cattivo.
Però non è possibile e non può giustificarsi in alcuna maniera che una classe dirigente passi tranquillamente con incarichi istituzionali e di governo dagli anni Settanta al 2013, senza un ricambio, che favorisca idee nuove, prospettive nuove, capacità di affrontare e risolvere i problemi nuovi.


Vabbé che oggi va di moda il «vintage», e ci si candida a governare il Paese del dopo-Monti partendo da una pompa di benzina, emblema del peggiore Stato esattore e gabelliere, sfoderando la tristezza dei quadri di Edward Hopper della Grande Depressione americana. Però ai giovani del 2013, a generazioni di esclusi dal lavoro e dalla pensione garantita, e dai privilegi degli iperprotetti del sistema, non si può rispondere con le categorie degli anni Sessanta e Settanta, e della classe dirigente che si è formata ed è scesa in politica in quegli anni.


Anche perché, diciamocela tutta: i D'Alema, le Bindi, gli stessi Veltroni sono quelli che ci hanno regalato il ventennio berlusconiano, non essendo mai stati capaci di convincere il Paese di essere in grado di guidarlo. L'unica vittoria del centrosinistra negli ultimi decenni l'ha portata a casa Romano Prodi, che non era un politico, e non faceva parte di quella classe politica abituata a coptarsi e ad autoperpetrarsi. E di fatti è l'unico di quelli che, una volta fallito (perché il governo dell'Unione ha platealmente fallito), ha lasciato la politica.

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