Sallusti, menzogne e la casta dei giornalisti

di Pierangelo Giovanetti

Caro direttore, non capisco tutto questo scalpore suscitato dalla condanna di Sallusti. Se si vuole dar retta alle indiscrezioni apparse sulla stampa egli è stato condannato dalla Corte di Cassazione per aver permesso che si scrivesse il falso (e non un'opinione come qualcuno cerca di far credere!) riguardo l'operato di un magistrato (in articolo anonimo) sul quotidiano di cui era direttore responsabile.
 Se si depenalizzasse, come ora si chiede a gran voce, il reato di diffamazione questo darebbe in mano a chi fosse provvisto di grandi mezzi finanziari (e quindi in grado di far fronte ad un'eventuale causa civile) una licenza a diffamare, con la conseguenza che ancor più di quel che accade ora i ricchi potrebbero diffondere notizie false sul conto degli avversari (politici e non) senza che i poveri possano trovare un'adeguata difesa.
Se a Sallusti piace l'idea di fare la vittima, ed in modo arrogante non vuole percorrere le strade che potrebbero evitargli la galera, credo sia giusto accontentarlo e fargli scontare la pena a cui è stato condannato senza alcun favoritismo.
Stefano Mattei  - Trento


Il carcere per il reato di diffamazione è effettivamente una misura sproporzionata rispetto all'eventuale fatto commesso. Detto questo, Alessandro Sallusti, direttore de «Il Giornale», non è stato condannato per aver espresso un'opinione, ma: 1) per aver pubblicato sul suo giornale una menzogna, cioè una cosa falsa; 2) per aver incitato a punire con la morte i protagonisti della vicenda e, in particolare, il magistrato che ha applicato solo ed esclusivamente il dettato che la legge stabilisce, perché altro non avrebbe potuto fare; 3) per non aver voluto risolvere la questione con la persona che ha diffamato con una semplice lettera di scuse; 4) per aver scientemente e deliberatamente rifiutato successivamente di risarcire economicamente la vittima della diffamazione, che aveva annunciato di devolvere in beneficenza il ricavato; 5) per aver con editoriali successivi ribadito di aver ragione quando ora anche l'autore del falso, la fonte dei servizi segreti Betulla, ha dichiarato - coprendosi con grande coraggio dietro l'immunità di parlamentare - che la notizia era falsa, ed è stata scritta in maniera falsa per altri scopi; 6) per aver a proprio carico una lunga e reiterata recidiva in fatto di diffamazione; 7) per aver in tutte le maniere cercato di passare per vittima, sapendo che la legge in ultima istanza prevede il carcere, e quindi coscientemente volendo arrivare allo scontro per farne una battaglia politica.
La libertà di opinione, pertanto, in questo caso non c'entra nulla: è solo fumo negli occhi per nascondere i fatti. E la corale indignazione della stampa italiana e delle più autorevoli e prestigiose firme giornalistiche su tutti i maggiori quotidiani, da destra a sinistra, senza alcuna autocritica, ha dimostrato platealmente come i giornalisti italiani si ritengano una «casta», e come tale agiscono, in completa propria autodifesa «a prescindere», come direbbe Totò.
Fa sorridere infine, sul piano politico, vedere alfieri del garantismo in difesa dei giornalisti, in nome della libertà di stampa, quei deputati e quei senatori che fino a qualche mese fa sostenevano a spada tratta il carcere per chi pubblicasse notizie vere, ma oggetto di intercettazioni. Il garantismo vale, evidentemente, a senso unico: se riguarda un giornalista schierato platealmente a proprio favore va difesa la libertà di stampa, se riguarda altri va bene la prigione. E tra quelli che sostenevano la galera per i giornalisti che pubblicavano i nomi degli indagati nelle inchieste, in prima fila c'era «Il Giornale» di Alessandro Sallusti, evidentemente anche lui a favore della libertà di stampa a corrente alternata». Cioè quando fa comodo a sé.
 p.giovanetti@ladige.it

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